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Trump rischia una gran facciata populista contro il suo Muro

Daniele Raineri

Il presidente americano sceglie la linea dura, lo shutdown va avanti, ma non ha i voti per mantenere la promessa. “Sembrerei stupido se cedessi”

New York. Il presidente americano Donald Trump vuole seguire il suo istinto di populista senza compromessi e promette che non cederà sullo shutdown del governo finché non otterrà cinque miliardi di dollari estratti dal budget federale per costruire il muro al confine con il Messico, ma per chiunque non faccia parte della sua corte l’impressione è che si sia infilato in una trappola politica senza via d’uscita. Lo shutdown è una procedura che arriva quando il governo americano non riesce a far approvare il budget federale e l’effetto immediato è che alcune agenzie federali ritenute non essenziali smettono di funzionare. Circa un quarto del governo non riceve più soldi, il che vuol dire che circa 800 mila dipendenti non ricevono più la paga (di solito sono rimborsati quando lo shutdown termina, ma intanto devono pagare le spese correnti, gli affitti, i mutui e il resto). Trump vuole che nel budget federale ci siano i soldi per il muro, perché è la grande promessa che ha fatto ai suoi elettori durante la campagna del 2016 – tra le altre cose diceva anche che il muro sarebbe stato pagato dal Messico, ma non è successo. E’ un caso affascinante e da manuale di grande promessa populista che incontra la realtà. In Italia anche il governo gialloverde ha provato a presentarsi in Europa con un rapporto deficit/pil del 2,4 per cento per finanziare le promesse molto impegnative fatte in campagna elettorale, ma poi ha accettato di scendere al due per cento. Trump aveva in un primo momento ceduto e i repubblicani avevano deciso di votare un accordo con i democratici che non prevedeva stanziamenti per il muro ma circa 1,3 miliardi di dollari per aumentare la sicurezza sul confine meridionale, con più guardie e più reticolati, e avrebbe evitato lo shutdown.

 

Ma poi il presidente ha deciso che non poteva rinunciare. A dicembre in un incontro nello Studio Ovale con i leader democratici al Congresso, Nancy Pelosi e Chuck Schumer, ha accettato davanti alle telecamere la responsabilità per lo shutdown, “sarà lo shutdown di Trump, non darò la colpa a voi”. Pelosi ha provato a ricordargli che i repubblicani non hanno abbastanza voti al Congresso per far passare il budget come lo vuole Trump, ma lui ha risposto che non è vero. E così eccoci al tredicesimo giorno di shutdown. Due giorni fa c’è stato un incontro con i leader democratici per sbloccare la situazione, ma entrambe le parti si sono arroccate. “Ora sembrerei stupido se cedessi”, ha detto Trump, che punta tutto sul fatto che i democratici cederanno e non vede che più lo stallo si prolungherà più rischia lui. Ha provato a fare leva sul fatto che Nancy Pelosi è cattolica e quindi dovrebbe essere più comprensiva perché “anche il Vaticano è circondato da un muro” (che però è lungo tre chilometri). I democratici hanno appena vinto le elezioni di metà mandato con un’approvazione ampia e non intendono regalare a Trump un vantaggio enorme in vista delle presidenziali del 2020 – se ottenesse i fondi per il muro poi in campagna elettorale batterebbe soltanto su quello. Ieri è stato il primo giorno del nuovo Congresso dove i democratici sono molto forti, nessuno sa spiegare perché come primo atto dovrebbero sottomettersi a Trump. Forse se nel suo staff ci fossero ancora voci dissenzienti, il presidente non si sarebbe cacciato in questa situazione. Ma nei primi due anni di mandato ha eliminato tutti gli outsider che gli tenevano testa dentro l’Amministrazione – l’ultimo è il capo della Difesa, Jim Mattis, che ha dato le dimissioni a dicembre dopo l’annuncio del ritiro dalla Siria – e ora non c’è più alcun fattore correttivo a mitigare le sue decisioni d’impulso. I precedenti lo confortano. Quando decise di continuare la campagna elettorale pur dopo l’audio imbarazzante uscito a ottobre 2016 (“grab’em by the pussy”), oppure quando decise di insistere sulla nomina di Brett Kavanaugh alla Corte suprema, riuscì a vincere a dispetto delle previsioni. Questa volta i precedenti potrebbero averlo incastrato in una posizione intenibile.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)