The great ammuina
Perché Trump s’è intestardito sul muro (consenso della base) e quanto ci costa questa tigna
New York. Ezra Klein, direttore del sito liberal Vox, ha una tesi a proposito del muro al confine con il Messico: il presidente americano Donald Trump in realtà non ha tutto questo bisogno di costruire davvero una barriera lungo i tremila chilometri circa del confine sud del paese, ma ha un bisogno disperato di farsi vedere dai suoi elettori mentre lotta per costruire il muro, così nel 2020 non gli volteranno le spalle. È una lotta percepita che diventa più importante del traguardo. Un po’ come succede con il governo populista in Italia che trasforma in un caso internazionale la presenza di 49 migranti al largo e sorvola sul fatto che – secondo i dati del ministero dell’Interno – negli ultimi cinque mesi sono sbarcati in Italia circa 3.300 migranti. La scena è più importante della sostanza, lo scontro politico è più importante dell’obiettivo finale, anzi è l’obiettivo finale.
Se così stanno le cose, si capisce perché Trump non vuole trovare un accordo con i democratici anche se lo shutdown – la sospensione delle attività del governo federale, inclusa la paga per ottocentomila dipendenti – oggi è arrivato al giorno numero ventidue e quindi è diventato ufficialmente il più lungo della storia degli Stati Uniti. E’ un record per nulla positivo considerato che causa danni all’economia americana per 1,2 miliardi di dollari a settimana secondo le stime della stessa Casa Bianca e ha conseguenze serie.
Ieri è stato il giorno della prima paga saltata per tutti i federali e sui giornali ci sono storie di famiglie che si sono trovate di colpo senza paga e ora vendono beni personali per far quadrare i conti e affrontare le spese che non possono rimandare, come l’affitto della casa. L’associazione degli agenti Fbi ha mandato una lettera all’Amministrazione per spiegare che cinquemila tra agenti e altri specialisti sono senza stipendio e la situazione mette a repentaglio la sicurezza nazionale.
La situazione è intenibile e infatti Trump che pure ha minacciato di far durare lo shutdown “per mesi e anche anni se necessario” ha chiesto ai suoi un piano per aggirare il veto dei democratici. Le opzioni sono due. La prima è ricorrere al fondo messo a disposizione del corpo dei genieri dell’Esercito per sistemare alcune aree del paese colpite da uragani e incendi disastrosi, un tesoretto da più di tredici miliardi di dollari che sarebbe deviato verso il muro. La seconda è dichiarare lo stato d’emergenza, anche se il numero di persone che attraversano illegalmente il confine sud non è mai stato così basso. Grazie alla dichiarazione di emergenza nazionale il presidente potrebbe ordinare la costruzione del muro e tentare in questo modo di aggirare l’opposizione, ma molti anche dentro il partito repubblicano si oppongono perché l’ordine potrebbe essere revocato dalla Corte costituzionale e anche perché sarebbe una stortura dei principi che regolano il governo.
Se un’Amministrazione, non importa di quale colore, cominciasse a fare quello che vuole a colpi di dichiarazioni emergenziali, nel Partito repubblicano che non vede di buon occhio il big government molti sarebbero scontenti. Che cosa succederebbe, si chiedono, se un domani un’Amministrazione democratica dichiarasse che il climate change è un’emergenza e quindi prendesse decisioni drastiche? Non potremmo obiettare nulla, perché ci sarebbe il precedente del muro. Ma questa è ormai la direzione imboccata dal presidente, secondo alcune fonti anonime che sono a conoscenza degli ordini arrivati dalla Casa Bianca al Pentagono e ne hanno parlato a tutti i giornali.
Due giorni fa Trump si è presentato nel sud del Texas al confine con il Messico con la stessa tenuta informale che usa quando visita i luoghi colpiti da calamità naturali – perché vuole far passare il messaggio che la non esistenza del muro è un’emergenza nazionale – e al suo fianco c’era Pat Cipollone, capo dei legali della Casa Bianca al quale ha chiesto di valutare la fattibilità delle sue prossime mosse. L’idea del muro è nata come espediente retorico dei suoi speechwriter durante la campagna elettorale del 2016 per ricordare al Trump candidato di citare l’immigrazione, che è sempre un argomento che colpisce molto gli elettori, ma Trump presidente ha trasformato quell’idea nella battaglia che definirà il suo primo mandato e che gli darà – oppure no – una chance per il secondo. Se poi perderà la battaglia giudiziaria, tanto meglio: così non deve imbarcarsi nei lavori e potrà dare la colpa al Sistema. Votatemi di nuovo e ci proverò con la stessa ostinazione.
In realtà, secondo Ed Zarenski, un professore intervistato dal Washington Post che studia i costi delle infrastrutture e da trent’anni lavora come consulente per una delle più grandi aziende edili d’America, anche se Trump ottenesse domani la cifra che chiede di 5,7 miliardi di dollari sarebbe ancora molto lontano dal traguardo. Il denaro coprirebbe meno di un quarto della lunghezza e ci vorrebbero almeno diecimila lavoratori per avere risultati entro due anni. Se invece volesse davvero costruire una barriera lungo tutto il confine allora i lavori finirebbero tra dieci anni – quindi potenzialmente a tre presidenti di distanza da Trump – e il costo finale sarebbe attorno ai venticinque miliardi di dollari. Fare una stima reale tuttavia è complicato perché il presidente cambia spesso visione. Nel 2016 parlava di un muro di cemento armato, ora di una barriera di acciaio, a volte usa persino il termine “staccionata”, e la lunghezza cambia: “mille miglia”, “duemila miglia”, “settecento miglia”.