Chi è François Ruffin, il deputato-reporter che ha raccontato i gilet gialli in un film
Uscirà il 3 aprile e si chiamerà “J’veux du soleil”. Il parlamentare della sinistra radicale guidata da Mélenchon: “Daremo un'immagine del movimento diversa da quella raccontata da Bfm e da tutti gli intellettuali in camicia bianca”
Parigi. François Ruffin è un habitué dei colpi di scena, ha un talento innato per le provocazioni mediatiche ed è il più insoumis della France insoumise, il partito della sinistra radicale guidato da Jean-Luc Mélenchon. Ma Ruffin, come lui stesso si definisce, è anche un “deputato-reporter”, che da quando ha trovato posto sugli scranni dell’Assemblea nazionale non ha mai smesso di pestare contro “la casta macronista” e di autoproclamarsi “portavoce del popolo”.
Il “popolo”, oggi, è rappresentato da quei gilet gialli che da ottobre tengono in scacco Emmanuel Macron e il suo governo, mettendo a repentaglio la stabilità della République, e lui, il sanculotto Ruffin, allergico alla cravatta e alla camicia dentro i pantaloni, ha appena annunciato su YouTube di aver dedicato un documentario a questa Francia periferica che ribolle tra le rotatorie e i caselli autostradali: uscirà il prossimo 3 aprile e si chiamerà “J’veux du soleil”. “Il 3 aprile facciamo uscire nelle sale #JveuxDuSoleil con Gilles Perret. Un road movie nella Francia dei gilet gialli, affinché la Storia conservi un’altra traccia di questo movimento eccezionale rispetto a quella raccontata da Bfm e da tutti gli intellettuali in camicia bianca”, ha twittato Ruffin annunciando l’uscita della pellicola prodotta da Jour2Fête.
La primavera gialla della Francia che legge Fakir
Tra i politici che hanno provato ad abbracciare il movimento dei gilet gialli, andando a incontrarli sui ronds-points della provincia francese, è stato l’unico a suscitare sempre reazioni positive. Molti gilet sono lettori del suo Fakir, il giornale irriverente “arrabbiato con tutti o quasi”, che Ruffin ha fondato nel 1999 a Amiens: un giornale di inchieste sociali che dal 2009 ha una diffusione nazionale.
Ora Fakir, pur presentandosi senza alcun legame politico, sindacale e istituzionale, è indubbiamente la rivista più vicina alla France insoumise. Ma Ruffin vorrebbe anche che diventasse la principale gazzetta della Francia profonda, quella Francia che nel suo prossimo documentario è la protagonista assoluta. “Quando un movimento resiste tra Natale e Capodanno, e anche in gennaio, significa che esistono buone possibilità affinché in primavera possano accadere delle cose in questo paese”, dice nel video pubblicato su Youtube, accanto al regista Gilles Perret e alla montatrice di fiducia Cécile Dubois, con cui aveva già lavorato in “Merci Patron!” (2016), pellicola contro Bernard Arnault di Lvmh ricompensata al Festival di Cannes come miglior documentario e molla ideologica per il movimento “Nuit Debout”, e per “L’Insoumis” (2018), mediometraggio dedicato a Mélenchon. “Ho incontrato delle belle persone, e ora spetta a noi fare qualcosa di bello”, afferma davanti alla telecamera col suo solito sorriso beffardo, invitando le persone interessate a proiettarlo nei “cinema o nelle rotatorie del proprio quartiere” a contattarlo tramite il suo sito internet francoisruffin.fr (i diritti d’autore saranno versati al Secours populaire, associazione umanitaria che aiuta i più deboli).
Figlio della provincia francese stravolta dalla mondializzazione
Nato a Calais nel 1975 da un padre dirigente di Bonduelle e una madre casalinga, Ruffin è il figlio della piccola borghesia di provincia che sogna la capitale, un po’ intellò un po’ rivoluzionario. Ma il deputato più indomito degli indomiti mélenchonisti è anche il figlio di quelle terre operaie che la mondializzazione ha sfigurato. “Sono il prodotto di una doppia cultura, non so molto bene dove siano le mie radici”, ha ammesso lui stesso. Entre-les-deux, allora. Del resto, dopo aver mosso i primi passi nell’ultimo lembo di terra francese prima della Manica, il piccolo François si è spostato con la famiglia a Amiens, e lì, nel cuore della Piccardia, ha frequentato la scuola dell’alta borghesia locale: La Providence, il liceo gesuita dove un certo Emmanuel Macron si è innamorato della sua professoressa di teatro, Brigitte Trogneux. Ruffin ama il calcio, ma quello di provincia (lo ha dimostrato all’Assemblea nazionale indossando la maglietta di una squadra della sua circoscrizione per dirsi favorevole a una supertassa sui trasferimenti multimiliardari dei calciatori professionisti), gioca a tennis con molta passione e legge molto: Balzac e Bourdieu su tutti. Ha scritto anche qualche romanzo, senza mai trovare la voglia di pubblicarlo, e a 24 anni ha fondato Fakir, perché “non si parla abbastanza delle fabbriche locali che chiudono”. Ha frequentato il Cfj, la grande scuole di giornalismo di Parigi, e dopo esserne uscito ha sparato in libreria un pamphlet in cui denunciava il conformismo dilagante nel milieu: “Les petits soldats du journalisme”.
Il libro fu un successo clamoroso, il “grand timide”, come lo soprannominavano i suoi compagni di classe, cominciò a smaliziarsi e a indossare i panni del cavaliere bianco contro i patrons, le caste di ogni genere, il regno dell’argent e il tribalismo di un’élite disconnessa dalla realtà. Da quando è stato eletto deputato nelle fila di Mélenchon, ha moltiplicato gli attacchi contro Macron, dicendo che è “come Marie-Antoinette”, ha affermato di essere sorvegliato per “sedizione” dai servizi segreti interni, la Dgsi, e ha lanciato 27 proposte di legge, una delle quali sul burn-out al lavoro. Alcuni trovano macchiettistica la sua “ribellitudine”, altri la trovano affascinante. Lui, intanto, sogna di vedere i bòbò in gilet giallo: l’unione delle grandi metropoli con il mondo rurale.