Theresa May (foto LaPresse)

L'inverno della Brexit sta arrivando. Cosa farà ora May?

Paola Peduzzi

Come previsto l'accordo siglato dalla premier britannica è stato bocciato dalla Camera dei Comuni. Theresa ha tre giorni di sedute parlamentari per presentare un piano B

Milano. Proteste fuori Westminster, proteste dentro, emendamenti sulla Brexit, interventi, richiami, toni minacciosi, dispetti, promesse irrealizzabili. Il “Brexit day”, il giorno in cui il Parlamento britannico si è preparato per votare, alla sera, l’accordo sul divorzio con l’Unione europea della premier Theresa May, è stato la sintesi esatta – perfetta nella sua irrimediabile mediocrità – degli ultimi 844 giorni del Regno Unito (e nostri). Un caos palpabile, misto a insofferenza e sfinimento, mentre tutti bisbigliavano le parole dette dal ministro Michael Gove, architetto della Brexit e ora improbabile alleato della May: “Winter is coming”, citazione invero poco originale dal “Trono di spade”. L’inverno sta arrivando, e chi continua a parlare di coperte (troppo corte) e di stufe, ammonticchiando cavilli risolutori che non sono al momento praticabili, alimenta il freddo. Quanto sarà spesso il ghiaccio? Molto. La sconfitta è stata brutale per la premier: 432 voti contrari contro 202 favorevoli, molto oltre le già brutte aspettative del governo che poneva la soglia del caos governabile a cento voti contrari (sì, la barra era molto bassa). Ora tutte le opzioni restano comunque possibili: la May chiede nuove consultazioni e si prende i tre giorni che ha disposizione per presentare un piano b. Ma la richiesta di estendere l’articolo 50, cioè di posticipare la Brexit oltre il 29 marzo, diventa sempre più probabile. In mezzo ci sono alternative di vario tipo e potenza, che parlano di un fallimento collettivo della leadership britannica: il governo non è riuscito a creare unità attorno a un percorso negoziale e a un’idea di Brexit. Questo era il suo compito: ricucire la ferita europea, gettare un ponte tra le due anime del paese, offrire una visione condivisibile. La May un’idea non l’ha mai avuta del tutto chiara: ha cercato con il tatticismo politico – la forza che l’ha sorretta fino a ora – di nascondere le infattibilità della Brexit, anche quelle più evidenti come il confine nordirlandese. Ma anche i suoi oppositori erano, sono senza idee. L’unica è quella del Labour di Jeremy Corbyn, sempre la stessa, e non ha a che fare con la Brexit: vuole far cadere questo governo e per oggi ha intenzione di chiedere la fiducia, un’altra dolorosa conta. 

  

Il tatticismo politico ha prevalso anche dalle parti del Labour che a oggi – 844 giorni sono passati pure per l’opposizione – non ha un’idea di Brexit, ma corteggia semplicemente la speranza di un nuovo voto, di un nuovo negoziato guidato da Corbyn. Il quale potrebbe cadere in piedi, come ha già dimostrato di saper fare, ma non per questo con una prospettiva europea credibile, anzi. Non c’è una storia politica di successo da raccontare nel Regno, né al governo, né tra i falchi brexiteers (che ancora alimentano illusioni su una Brexit “pulita” che non è mai esistita: semmai c’è il no deal), né tra i remainers, che non sono riusciti a compattarsi sull’ipotesi del secondo referendum. Un sintomo di questo insuccesso collettivo è il Partito liberaldemocratico: avrebbe dovuto fare da calamita per gli anti Brexit, o almeno coltivare l’istinto europeista che tutti dicono rafforzato, invece viaggia attorno al 10 per cento, com’era nel 2010. Non si salva nessuno, insomma: questi due anni di negoziati e di confronti avrebbero dovuto creare una nuova identità britannica proiettata verso un isolazionismo inedito ma pur sempre scelto dagli elettori, ma è accaduto il contrario. Ripensarci sembra un tradimento, fare la Brexit è un tradimento, e mentre ci ritroviamo sfiancati dalle discussioni sul modello norvegese, il Parlamento arriva a ritenere plausibile l’ipotesi di esautorare il governo di Sua Maestà e avocare a sé la gestione degli scampoli di tempo residui: un golpe istituzionale, per dirla in breve.

 

Questo collasso di idee e di leadership e di istituzioni non riguarda però soltanto il Regno Unito. La Brexit non è una storia prettamente britannica: è un esperimento che ci riguarda tutti, noi europei. Quel che abbiamo capito, in 844 giorni, con ancora il finale da scrivere, è questo: ogni promessa basata su illusioni è destinata a scontrarsi con la realtà. Può farlo con clamore, come nel caso inglese, o in modo meno roboante, ma l’impatto è certo, e i numeri sull’andamento economico hanno dei meno davanti. Creare aspettative irrealizzabili può far vincere un referendum o un’elezione, ma non rappresenta una difesa dell’interesse nazionale, semmai il suo contrario. Distruggere il mercato unico è quasi impossibile, per una semplice ragione: funziona. Così come la difesa dell’interesse collettivo è ben più potente di quanto i brexiteers e chi flirta con l’idea di un “no Europa” potessero immaginare. I sovranisti dicono che non vogliono distruggere l’Ue, ma modificarla: intendono dire che vorrebbero un’Europa a propria immagine e somiglianza. Gli inglesi ci hanno provato, loro che da sempre hanno un posto privilegiato nell’Ue: possono solo sperare che sia loro concessa l’unica cosa ancora negoziabile. Il tempo.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi