Sfidare la Brexit con il People's vote
Il Regno Unito è stato finora governato dalla strategia dell’ambiguità, adottata dalla May e ancor più dal laburista Corbyn. Così ancora non si sa che Brexit vuole il paese. L’unico modo per saperlo è chiederlo, con un altro referendum
Milano. Bisognerebbe guardare e riguardare gli interventi di John Bercow alla Camera dei Comuni inglese: lo speaker ripete il suo ormai virale “order” e ogni tanto introduce delle variazioni, come quell’imperdibile “zen, contegno, pazienza” pronunciato mentre Theresa May faceva l’ultimo, disperato, fallimentare appello per salvare il suo accordo sulla Brexit. Bisognerebbe ripeterlo e ripeterselo, questo mantra, ordine-zen-contegno-pazienza, provando a prendere le distanze dal caos contagioso londinese, e cercando di capire qual è a oggi la strada che più salvaguarda l’interesse collettivo.
Jeremy Corbyn, leader del Labour, punta al potere, non a un percorso di uscita dall’Unione europea che possa essere condivisibile e accettabile. Chiede e ottiene la mozione di sfiducia, la perde (325 vs 306), ma è disposto a ripretenderla fino allo sfinimento, fino a che non riesce a cacciare la May da Downing Street, raccoglie firme per elezioni anticipate subito e adesso, e a quelli che gli dicono: ma se sostenessimo un secondo referendum e provassimo a curare almeno un po’ la frattura europea?, risponde: preferisco prima diventare premier. Adrian Wooldridge, saggista e autore della column Bagehot dell’Economist, dice al Foglio: “Il Labour sta vendendo una fantasiosa ‘Brexit del popolo’, che non può funzionare quando stai cercando di ottenere un accordo dettagliato con l’Ue”. Di fantasie se ne sono dette e alimentate abbastanza, ora bisogna maneggiare i cavilli, le linee rosse, i pilastri non negoziabili delle libertà europee, non certo offrire altre promesse irrealizzabili. Ma per Corbyn la battaglia non è mai stata sulla Brexit, quanto sulla leadership del Regno Unito, come spiega Wooldridge: “Il leader del Labour non vuole un secondo referendum perché prima di tutto vuole lasciare l’Unione europea, è pur sempre un vecchio marxista, anche se molti laburisti vorrebbero rimanere nell’Ue. Corbyn è preoccupato dalla spaccatura dentro al suo partito tra la middle class, che è per rimanere in Europa, e la working class che è per andarsene. L’ambiguità strategica tiene il partito unito”.
L’ambiguità è una tattica che può rivelarsi infine di successo, ma non risponde alla domanda più importante: che cosa vuole davvero il Regno Unito. Pur avendo negoziato per molti mesi, e avendo cambiato idea su quel che si poteva ottenere dalla trattativa, nemmeno la May ha mai risposto a questo quesito cruciale. Ancora qualche settimana fa, a domanda diretta degli europei: “Theresa, che cosa vuoi?”, la premier non ha dato indicazioni. L’errore è stato, fin dall’inizio, tutto qui: trattare la questione Brexit come un affare partigiano, conservatori contro laburisti, un affare di potere e di governo del Regno, non del processo di divorzio. Il risultato è questo fallimento collettivo. Mercoledì ai Comuni si sono alzati per difendere la May dalla sfiducia chiesta da Corbyn molti deputati conservatori che soltanto ventiquattro ore prima avevano dichiarato che l’accordo sulla Brexit della May era indecente. L’unità si trova – temporanea, abborracciata – soltanto nella lotta tra conservatori e laburisti, non nella definizione di una Brexit praticabile.
Nel gioco delle ambiguità può vincere May o può vincere Corbyn, ma è una carambola che certo non porterà stabilità nel Regno Unito e non ricucirà quella frattura ideologica, culturale, sociale che, invece che rimarginarsi, si è approfondita dal referendum del 2016. Di fronte a questo fallimento di leadership e di idee, non resta che negoziare l’unica cosa che ancora è negoziabile: il tempo. L’Ue è disposta a prorogare l’articolo 50 e posticipare la Brexit oltre il 29 marzo, ma è Londra che deve fare la richiesta, e deve dire anche di quanto tempo ha bisogno. Poi l’obiettivo dei governanti britannici dovrebbe tornare a essere quello originario: che Brexit vogliamo? O ancora: siamo sicuri che la vogliamo, la Brexit?
Il People’s vote, il movimento che chiede un secondo referendum e che ha portato in piazza 700 mila persone l’anno scorso sorprendendo molti, protesta davanti a Westminster, dice che non c’è alternativa a una nuova consultazione. Né la May né Corbyn vogliono dare ascolto a questa richiesta, preferiscono di gran lunga la loro ambiguità tattica, e con loro molti dicono: cosa facciamo, rivotiamo finché non viene un risultato che piace all’Ue? Il rischio che una seconda campagna referendaria sia ancora più acida della prima è molto alto, ma se i rappresentanti della democrazia – tutti, conservatori e laburisti, governo e Parlamento – si sono rivelati incapaci di maneggiare e guidare la volontà popolare, potrebbe non esserci alternativa a una nuova volontà popolare. Andrew Adonis, uno dei più solidi sostenitori del People’s vote, dice al Foglio: “Non ci saranno altre elezioni, un nuovo referendum è l’unica via praticabile”. Che piaccia o non piaccia alla May, a Corbyn, a chi teme che di questo passo si finisca fuori dall’Ue senza nulla: senza accordo, senza credibilità, senza appigli commerciali, nudi. Che era l’unica cosa che i leader inglesi, tutti quanti, ripetendosi ordine-zen-contegno-pazienza, dovevano, potevano evitare.