I confini dello scontro tra Parigi e i gialloverdi
Tre libri, molti dati e una corrispondenza (social) spiegano la frattura franco-italiana
Molti hanno cercato di stabilire un nesso tra i gilet gialli e la situazione italiana, con rivendicazioni di solidarietà da parte di chi vede un’opportunità in una potenziale alleanza per le prossime elezioni europee. Questa visione italianissima della piazza francese non incontra grandi adesioni all’interno di un movimento assai disparato, ma è la dimostrazione di un problema più vasto, che ha a che fare con la percezione reciproca tra Francia e Italia.
Il primo elemento riguarda l’immigrazione. In Italia la lotta contro l’immigrazione è divenuta un punto cardine, che ha poi preso forza con la Lega di Matteo Salvini. In Francia, la lotta contro l’immigrazione rappresenta un tema classico, che risale almeno agli anni Ottanta, sbandierato dal Front national di Jean-Marie Le Pen e ora dalla figlia Marine. In Francia, dagli anni 1980 a oggi, il saldo migratorio oscilla fra 50 e 100 mila ingressi l’anno. Il che rappresenta un fenomeno piuttosto limitato, soprattutto comparato al periodo precedente, quello degli anni 1950-1970, caratterizzato da un alto numero di ingressi. Quando si parla di circa 6 milioni di immigrati in Francia, vengono inclusi anche i cittadini stranieri che hanno acquisito la nazionalità francese, svariati milioni, un procedimento statistico discutibile. Per l’Italia abbiamo un fenomeno molto più recente (dagli anni 2000 in poi) e intenso, con oggi circa 5 milioni di immigrati che non hanno la cittadinanza italiana.
La questione migratoria in Francia e in Italia ha una storia molto diversa, ma la creazione di un “nemico” è molto utile
I dati ci permettono di analizzare la lettura diversa del problema “immigrati” fra Francia e Italia. In Francia un’immigrazione di massa negli anni 1950 e 1970, con una forte provenienza dall’Africa del nord nel contesto coloniale e post-coloniale, ha prodotto una realtà che è quella delle seconde e terze generazioni di francesi di origini immigrate, con l’avvento di una specie di “seconda cultura” di origini magrebine, una cultura parallela che viene percepita spesso come un progetto antitetico alla cultura della società francese. Questa dimensione difficilmente può prescindere dei traumi della guerra d’Algeria, percepita da alcuni come guerra civile e da altri come guerra di liberazione. Il penultimo romanzo di Michel Houellebecq, “Sottomissione”, si inseriva perfettamente su questa frattura con uno scenario di guerra civile basato anche sulla contrapposizione fra cristiani e musulmani. L’opera di Houellebecq rappresenta una caricatura, ma esiste una problematica di identità francese composita, una dimensione che viene a volte evocata come “problema di integrazione”.
La lotta contro l’immigrazione attuale rappresenta dunque essenzialmente una politica strumentalizzata e strumentale per tenere a bada i partiti di estrema destra. Una destra che si inserisce su questo dibattito identitario senza poter esplicitare la volontà ostile nei confronti dei francesi di origine immigrata dando la colpa a fantomatici nuovi immigrati – il tutto amplificato dall’ondata di attentati terroristici commessi da francesi di seconda generazione che si dichiarano musulmani radicali. Tutto ciò rafforza anche la frattura religiosa tra la rivendicazione di una fede musulmana radicale e il resto della società francese largamente secolarizzata.
La realtà italiana è assai diversa, con un’immigrazione recente – immigrazione di massa legale o legalizzata a partire dagli anni 1990 in poi. Come in Francia, la lotta contro l’immigrazione non può essere in modo esplicito un rifiuto dell’immigrazione legale e si concentra quindi contro l’immigrazione clandestina e più precisamente contro i profughi che tentano l’approdo il Italia attraverso il canale di Sicilia. Si tratta di un fenomeno con dei flussi assai ridotti ma che veicola una serie di problemi per l’inconscio politico italiano. Nel contesto sociale italiano attuale, esistono forti segnali di competizione per l’accesso ai servizi pubblici da parte delle fasce meno agiate, con la percezione di una concorrenza da parte degli immigrati (legali) che per la loro situazione possono usufruire di questi servizi. Tutto questo avviene anche in un contesto dove la qualità dei servizi pubblici può variare enormemente : esiste anche un problema generale di efficienza di alcune politiche pubbliche (sanità, asili nido, sostegni sociali…) che contribuisce però a puntare il dito contro il migrante come capo espiatorio di sacche di inefficienze pubbliche. In Francia la questione dei vantaggi legati alla protezione sociale a favore degli “immigrati” è stata a volte evocata ma non rappresenta oggi una linea di frattura.
I fenomeni sono quindi diversi ma c’è un elemento comune nella retorica antimigrante, una xenofobia diffusa che usa dei simboli come perno della mobilitazione politica. Si può pensare che il modello italiano, con un’immigrazione legale molto più diversificata per provenienza rispetto a quella francese e composta essenzialmente di popoli europei e cristiani, produrrà a breve effetti positivi per la tenuta sociale, ma è ancora troppo presto per osservare dinamiche legate all’emergenza di seconde generazioni. Ma i due contesti paralleli nutrono anche la retorica di chi in Italia usa l’ormai strutturale percezione negativa della questione migranti come pretesto per criticare la Francia, dalla gestione della frontiera terrestre all’accoglienza fino alle accuse di colonialismo, un modo per creare altri e nuovi “nemici”, utilissimi per attrarre consenso. In Italia si spinge spesso l’acceleratore del “francese cattivo” mentre in Francia si tende a ignorare la realtà fuori dai confini, e quindi anche quella italiana, ma anche a reagire con una certa acrimonia agli attacchi italiani: il panorama è talmente deteriorato che l’utilissima elaborazione di un trattato bilaterale franco-italiano, detto del “Quirinale”, è rimandata alle calende greche.
L’attuale crisi francese riporta invece a una serie di questioni territoriali. Nel suo ultimo romanzo, “Serotonina”, Michel Houellebecq descrive la decadenza di un personaggio che trascina con difficoltà la sua esistenza fra alcool e antidepressivi nelle pieghe di una Francia rurale disastrata. Anche se non è proprio una lettura avvincente, Houellebecq di nuovo ci prende quando descrive una rivolta contadina in Normandia che sfocia in uno scontro con le forze dell’ordine. L’attrazione dell’autore per le nevrosi della Francia periferica, un territorio vastissimo con una società spesso povera, gli ha permesso di cogliere ben prima dell’arrivo dei gilets jaunes lo stato di disperazione di alcune zone dettata dalle difficoltà economiche ma anche segnata da un ripiegamento individualista, un azzeramento della dimensione collettiva da parte di individui che si ritrovano soli ad affrontare la vita. Houellebecq omette però le rete sociali nella comunicazione fra i suoi personaggi, e quindi presenta un ritratto monco della realtà odierna, caratterizzata da solitudine spesso mediata dalle app sugli smartphone. L’utilizzo delle app serve a spiegare la rapida mobilitazione e la quantità di fake news che gira tra i gilets jaunes. Queste notizie e app sono spesso oggetto di manipolazioni da parte di alcuni enti destabilizzatori (partiti estremi, movimenti internazionali ostili alla stabilità democratica) ma spiegano il successo della mobilitazione sulle rotonde che fungono da luogo di incontro, una nuova società dove non si è più soli.
Anche lì però le differenze con l’Italia sono notevoli. La superficie della Francia è circa due volte quella dell’Italia, per una popolazione paragonabile. E’ caratterizzata da un centro tentacolare, la metropoli parigina, con il resto che vive nell’ombra. Sulle rotonde, i manifestanti raccontano storie di un’emarginazione che passa per la distanza: distanza spazio-temporale che spiega il carattere fondamentale nella protesta della difesa delle auto e la rabbia nei confronti di costi aggiuntivi alla libertà di spostamento, ma anche distanza economica con le disparità di reddito fra chi sta nei centri cittadini e chi si trova in campagna. Vi è infine e un’enorme distanza sociale con la casta parigina della meritocrazia al potere, fatta di individui che conoscono le regole di un gioco di riproduzione sociale basato sul merito, ma che tendono a estromettere chi non proviene da un ambiente privilegiato e non conosce le vie e i codici che portano al vertice, una realtà ben descritta nel romanzo “Leurs enfants après eux” di Nicolas Mathieu, vincitore del premio Goncourt.
Questa dimensione centro/periferia non si ritrova in un’Italia stretta, densamente abitata nelle pianure e le fasce costiere, e che vede vari poli urbani aggregare i territori. Roma sembra in una fase di stasi, mentre Milano si sta trasformando velocemente, e già questo rappresenta una notevole dicotomia. Esistono poi delle dinamiche territoriali ulteriori, con la ripresa di un flusso di migrazione dal sud verso il nord e la volontà delle regioni del nord di ottenere una maggiore autonomia, ma esiste anche un movimento di riscoperta dei territori isolati e di ritorno a un modello di vita tradizionale, con produzioni locali che vanno di pari passo con la difesa dell’ambiente. Silvia Avallone, in “Marina Bellezza”, rende bene l’idea di questo ritorno nelle colline da parte di giovani che non trovano soddisfazioni nella vita urbana, una visione della genuinità del territorio che diventa poi ideologia politica e che si ritrova nell’ormai diffusa opposizione (il cosiddetto effetto Nimby) a opere infrastrutturali che possano modificare l’assetto territoriale.
La corrispondenza si ritrova soltanto nella mobilitazione rapida e nel contagio spesso pretestuoso di accuse e proteste
Guardando bene le fratture espresse dal dibattito politico in Francia e in Italia, dall’opposizione all’immigrazione fino alle dinamiche territoriali, è più chiara l’assenza di corrispondenza fra i due casi. E’ quindi difficile compattare questi casi per passare a una forma di protesta europea. Il fattore unificante sono le reti sociali, è questa la corrispondenza. Sul fondo le differenze rimangono e potenzialmente costituiscono anche una materia per incomprensioni ulteriori.
Serotonine di Houellebecq è un libro triste, spesso disdicevole, il narratore racconta una sua discesa nell’annientamento progressivo. Houellebecq sembra prigioniero di questa spirale della decadenza, tanto evacua qualsiasi apertura verso una forma di lettura positiva. Già nel libro precedente, Soumission, faceva un veloce passaggio nel santuario della Vergine Nera di Rocamadour, antico luogo di pellegrinaggio cattolico di origine medievale situato in un canyon occitano, ma la scintilla della fede non scattava. Nel nuovo romanzo, l’autore butta velocemente nelle ultime righe un paragone con la morte di Cristo, un richiamo al sacrificio di Jesu per gli uomini. Ed è assai paradossale costatare come Michel Houellebecq, autore che illustra la Francia ultra secolarizzata, materialista, post cristiana ma anche post musulmana, non riesce a concludere il suo libro senza goffamente evocare l’azione divina. Dopo aver accompagnato il lettore in un percorso di annientamento individuale e collettivo, invoca un destino spirituale per riuscire a chiudere il suo racconto. Si tratta di un notevole paradosso, ma viene anche da pensare che sarebbe forse stato meglio iniziare da lì onde evitare centinaia di pagine di spaventosa aridità umana. Forse Houellebecq non riesce a non indicare una via di redenzione che passa tramite la fede, fattore sorprendente nel contesto francese, e che puo’ essere letta come un invito a calmarci tutti, a smettere di gettarsi in faccia le ristrettezze del materialismo economico ma anche l’uso fuorviante di tematiche di difficile gestione come il tema “immigrazione”, per ritrovare un senso comune della storia umana. La speranza quindi, al di là di Houellebecq.