Il pessimismo tecnologico ha contagiato Davos
Oltre alla trade war e all'ordine mondiale che traballa, i leader globali temono anche l'intelligenza artificiale
Milano. Soltanto un anno fa, a Davos, la kermesse della classe dirigente mondiale si chiudeva con una nota di ottimismo: le incertezze si moltiplicano, l’ordine mondiale traballa, ma le speranze di un futuro migliore provengono tutte dall’avanzamento tecnologico. Le aziende innovative sono floride, le tecnologie più sofisticate promettono paradisi in terra, e le opportunità di guadagno otterranno ciò che la diplomazia non riesce a fare, unire i popoli. Quest’anno, al Forum di Davos che si è appena chiuso, le incertezze se possibile sono aumentate ancora, e con esse le assenze dei capi di stato occidentali, ma questa volta nemmeno la fiammella del progresso è riuscita a dare conforto ai leader del mondo.
Prendete Jack Ma, il carismatico fondatore di Alibaba. Un anno fa annunciava al pubblico di Davos che “siamo fortunati perché il mondo è in piena trasformazione grazie alla tecnologia”. Quest’anno il tono era tutto diverso. Nessuna fortuna: la tecnologia potrebbe provocare una nuova guerra mondiale. “La Prima guerra mondiale è stata provocata dalla prima rivoluzione tecnologica”, ha detto Ma. “La seconda rivoluzione tecnologica ha provocato la Seconda guerra mondiale. Questa è la terza rivoluzione tecnologica, ci stiamo arrivando”. Jack Ma aveva già fatto osservazioni simili un paio d’anni fa, ma mai da un palco tanto prestigioso. E il cambiamento di prospettiva da un anno all’altro è macroscopico.
Oppure prendete George Soros, il filantropo liberale di origini ungheresi. Nel 2018 sosteneva che il maggior pericolo per la stabilità e la pace fosse Donald Trump. Nel 2019 invece l’obiettivo è cambiato. Il pericolo, ora, è la tecnologia. Più precisamente, le tecnologie di intelligenza artificiale e di machine learning, che possono essere usate dai regimi e non solo per creare sistemi di “controllo autoritario” e trasformare i totalitarismi in incubi orwelliani. La Cina, ha detto Soros, è un perfetto esempio.
I reporter del Financial Times hanno notato che il pessimismo tecnologico ha contribuito a generare un mood abbacchiato a Davos. C’entrano la trade war e le incertezze per l’economia mondiale. C’entra anche il fatto che quando Jair Bolsonaro è l’invitato d’onore, la tua festa è ad alto rischio di insuccesso. Ma dopo anni di intenso martellamento di pessimismo tecnologico sui media e nell’opinione pubblica, i dubbi sul futuro dell’innovazione hanno cominciato ad arrivare anche dagli architetti dell’ordine mondiale. Il ceo giapponese Takeshi Niinami, a capo di Suntory, una multinazionale miliardaria che si occupa di bevande e alimentari, ha detto al Ft che “l’anno scorso [a Davos] si parlava dell’adozione dell’intelligenza artificiale nella società e si era ottimisti. Quest’anno la conversazione è molto più realista”.
Colpiti infine dall’ondata populista, i leader mondiali riuniti a Davos temono che la rabbia dei loro cittadini abbia almeno qualcosa a che vedere con la rivoluzione tecnologica, e che se non si trova in modo di renderla un po’ più dolce arriveranno altra rabbia e altro populismo. La correlazione non è affatto scontata, e, per esempio, gli ultimi dati mostrano che la temutissima ondata di disoccupazione provocata dall’avvento dell’automazione e dell’intelligenza artificiale non si è affatto avverata. Non solo: la riqualificazione della forza lavoro nelle economie avanzate va di buon passo. Una ricerca di Cognizant uscita pochi giorni fa ha mostrato come i mestieri del futuro”, quelli cioè al riparo dall’automazione, siano aumentati del 68 per cento negli Stati Uniti l’anno scorso, a un tasso di crescita molto più alto del resto del mercato del lavoro.