I soldati americani sparano con un cannone nella provincia di Kandahar, in una foto del 2011 (Reuters)

E poi ci siamo arresi ai talebani

Daniele Raineri

Lo stesso ambasciatore della liberazione di Kabul ora negozia per Trump il ritorno dei guerriglieri islamisti. Soldati pronti a partire, Cinque stelle giulivi

New York. L’Amministrazione Trump e i talebani sono impegnati in lunghe trattative a Doha, capitale del Qatar, per arrivare a un accordo che permetterà ai quattordicimila soldati americani di lasciare l’Afghanistan dopo diciotto anni di guerra. L’ultimo round di sei giorni è finito sabato scorso, ce ne saranno altri presto. Se i negoziati porteranno a qualche risultato, sarà il segnale per tutti i contingenti occidentali che è arrivato il momento di chiudere le missioni e di lasciare il paese. Vale anche per quello italiano e il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, ha dato l’ordine di cominciare a pianificare un eventuale ritiro dei soldati italiani entro dodici mesi, secondo fonti della Difesa citate lunedì dall’Ansa.

  

Di Battista si è congratulato con Di Maio e la Trenta per l’imminente ritiro italiano (in dodici mesi). La Lega frena

L’accordo di Doha è ancora nelle fasi preliminari e prevede che in cambio del ritiro americano i talebani accettino tre condizioni: devono dichiarare un cessate il fuoco – quindi devono sospendere gli attacchi contro le forze del governo centrale di Kabul – devono impedire che i gruppi terroristi usino l’Afghanistan come una piattaforma per lanciare attacchi all’estero (come fecero l’11 settembre 2001) e devono cominciare a parlare direttamente al governo di Kabul, cosa che loro per ora hanno evitato di fare perché considerano il presidente Ashraf Ghani e i suoi ministri soltanto dei “fantocci dell’America”.

 

Ci sono due cose da sapere riguardo questi negoziati. La prima è che l’America se ne vuole andare dall’Afghanistan presto, che ci sia un accordo di pace oppure no. La seconda è che quando i soldati americani e le altre truppe occidentali saranno andate via non sappiamo assolutamente cosa succederà davvero e non c’è alcuna garanzia che i talebani coabiteranno assieme con il governo attuale di Kabul, invece che mangiarselo. Vediamo un punto alla volta.

 

La voglia di andare via non c’entra soltanto con il presidente Donald Trump, che vuole ritirare la truppe dalla Siria e da Kabul perché aderisce alla dottrina isolazionista dell’America First e vede ogni missione all’estero come uno spreco di risorse che potrebbero essere meglio impiegate in patria. E’ un cambio di pensiero più generale, che investe molti ambienti conservatori che fino a qualche anno fa non avrebbero nemmeno preso in considerazione l’idea di parlare ai talebani. Il senatore repubblicano Lindsey Graham è appena tornato da un viaggio esplorativo in Pakistan dove ha parlato con il governo ed è ora convinto che l’accordo di pace con i talebani sia fattibile. Il Pakistan è il grande sponsor dei talebani, lo era prima del 2001, poi accettò di separarsi dai talebani – almeno ufficialmente – per non incorrere nell’ira dell’Amministrazione americana dopo l’11 settembre e poi piano piano la nozione che i talebani afghani sono appoggiati dal Pakistan è diventata di nuovo “evidente come il sole”, come titolava un rapporto uscito qualche anno fa che spiegava i rapporti tra l’establishment militare pachistano e i talebani. E’ molto interessante notare che quando negli anni passati il Pakistan era accusato di sapere come influenzare i talebani la reazione era una smentita sdegnosa. Ma domenica, mentre commentava “la grande vittoria diplomatica” dell’accordo fra talebani e americani, il minsitro degli Esteri Sham Mahmood Qureshi ha detto che il Pakistan “ha avuto un ruolo essenziale nel portare i talebani al tavolo della pace”.

 

Robert Kaplan, un saggista conservatore che nel 2003 era stato favorevole all’intervento americano in Iraq, il primo giorno di gennaio ha pubblicato un lungo reportage dall’Afghanistan sul New York Times per spiegare che l’America deve andarsene via, anzi, che avrebbe dovuto già farlo. E’ difficile rispondere a chi dice che la missione americana nel paese è diventata la guerra più lunga della storia del paese, ingoia risorse enormi dal 2001, e che è necessario stabilire una data di scadenza altrimenti i soldati resteranno laggiù per sempre. I pezzi giornalistici che riguardano programmi di finanziamento molto generosi da parte degli americani destinati in teoria a costruire uno stato e forze armate più efficienti e capaci di reggersi da soli, e che però non producono risultati perché gli afghani si intascano il denaro e lo portano a Dubai e in altre città del Golfo, sono ormai un cliché molto vero.

  

Fino a pochi anni fa il pensiero prevalente in America è che si dovesse trattare un accordo con i talebani – questo è il nono anno di negoziati – ma che si dovesse trattare da un punto di forza quindi dopo avere dimostrato la propria superiorità sul campo ai guerriglieri afghani. Questa prova di forza non c’è stata, sebbene il predecessore di Obama abbia provato a mandare centomila soldati in Afghanistan per riconquistare il controllo della maggior parte del paese, e ora il negoziatore di Trump, l’ex ambasciatore americano in Iraq, Afghanistan e Nazioni Unite Zalmay Khalilzad, negozia da una posizione precaria. I talebani vedono inverarsi uno dei loro modi di dire preferiti, “voi occidentali avete gli orologi e noi abbiamo il tempo”, sanno che Khalilzad ha il mandato di chiudere la missione – magari in tempo per le elezioni presidenziali del 2020 così Trump potrà dire nei comizi che lui ha riportato i soldati a casa da Siria e Afghanistan – e trattano da padroni della situazione. Khalilzad fu il primo ambasciatore americano a Kabul, dal 2003 al 2005, dopo che gli americani liberarono la capitale assieme ai combattenti dell’Alleanza del nord nel 2001 e oggi dirige le trattative con le stesse persone che all’epoca erano scappate o erano state catturate. Due giorni fa i talebani hanno smentito che ci sia un accordo su un ritiro “entro diciotto mesi” – molto conveniente per Trump, arriverebbe più o meno attorno alla convention repubblicana – e hanno detto che ancora non c’è alcuna data.

  

I Cinque stelle quando non erano ancora al governo consideravano la missione italiana in Afghanistan una guerra d’occupazione per conto della Nato (e non il giardino di delizie che era sotto il controllo dei talebani) e quindi vedono con favore la chance di disimpegnarsi, anzo danno tutto già per fatto. “Il ritiro delle truppe dell’Afghanistan è una splendida notizia. Ho lottato tanto per questo obiettivo e con me ha lottato tutto il Movimento. In Afghanistan abbiamo perso uomini valorosi nonché sprecato più di 5 miliardi di euro dei cittadini italiani – scrive il leader carismatico Alessandro di Battista su Facebook – Ho appena parlato con Luigi Di Maio complimentandomi per la decisione. Si tratta di un altro successo di questo governo. Faccio i miei complimenti anche al ministro della Difesa Trenta. Sarà bellissimo vedere i nostri soldati far ritorno già nei prossimi mesi”. La Lega, il secondo troncone del governo gialloverde, invece dice che non c’è stata alcuna decisione e che Trenta ha soltanto chiesto una valutazione, con toni che in quanto a freddezza non hanno da invidiare nulla ai negoziati di Doha.

 

La seconda cosa da sapere è che l’accordo è molto strano e non offre garanzie di tenuta a tempo indefinito. I talebani governano secondo l’unica interpretazione coranica che accettano ed espandere quell’interpretazione a tutto il paese è la loro ragione di esistere. Sono un gruppo guerrigliero aggressivo che combatte per la conquista totale e considera il governo centrale un artificio degli infedeli per negare loro il controllo dell’Afghanistan – e infatti nelle trattative con gli americani non si rivolgono mai al presidente afghano Ghani ma soltanto all’Amministrazione Trump. Perché dovrebbero accettare di coabitare con il governo di Kabul, se non come compromesso temporaneo e fittizio per far sloggiare i soldati americani e gli altri contingenti occidentali che non vedono l’ora di interrompere le loro missioni? Come funzionerebbe questa nuova convivenza tra il governo di Kabul e i talebani?

 

L’ex ambasciatore in Iraq e Afghanistan Ryan Crocker dice: “Non riesco a vedere come questi negoziati siano qualcosa di più che un tentativo di mettere un po’ di trucco sopra al nostro ritiro”. Crocker ha decenni di esperienza diplomatica nella regione e fama di Cassandra ben informata: quando gli americani si ritirarono dall’Iraq disse che “i fatti per cui ci ricorderemo questo paese devono ancora avvenire” e si riferiva alla situazione ancora così instabile che era facile prevedere ulteriori sconvolgimenti. E infatti poi lo Stato islamico arrivò a conquistare un terzo del paese e obbligò l’occidente a una lunga campagna di guerra – soprattutto di bombardamenti – che distrusse le città occupate e riporto lo Stato islamico allo status di gruppo terrorista e non più di nazione con un governo, una polizia e forze combattenti.

 

Nel negoziato, i talebani non si rivolgono neppure direttamente al governo di Kabul. Le conseguenze sulla stabilità, e il motto di guerra

Viene in mente cosa accadde dopo il ritiro dell’Armata rossa nel 1989, quando i sovietici lasciarono l’Afghanistan nelle mani del presidente Mohammed Najibullah. Dopo molte guerre intestine fra le varie fazioni vincitrici, i talebani divennero la forza dominante e arrivarono a occupare la capitale Kabul nel settembre 1996. Najibullah aveva tentato di fuggire in India, oppure almeno di trovare rifugio nell’ambasciata indiana, ma si era visto respinto. Fu convinto a farsi ospitare nel compound della Nazioni Unite, dove credeva che sarebbe stato al sicuro perché i talebani non avrebbero osato un’azione di forza. Invece una sera, ancora prima che la conquista della capitale fosse ultimata, i talebani andarono a prendere il presidente nel suo letto, lo uccisero, lo castrarono e mutilarono, ne trascinarono il corpo per le strade e infine lo appesero a un lampione, in modo che fosse chiaro a tutti che una nuova era per l’Afghanistan era cominciata. Il fatto fu registrato come un capitolo della tumultuosa cronaca politico-militare del paese, irta di fazioni e di nomi strani, roba da specialisti che non valeva la pena approfondire. Fino a quando cinque anni dopo un gruppo di volontari arabi ospiti dei talebani colpì New York e Washington e i talebani divennero di colpo un soggetto interessante.

 

I talebani afghani considerano questi negoziati l’inizio della fine della lunga parentesi nel loro potere che si aprì nel settembre 2001. Nell’ufficio politico di Doha che si occupa dei negoziati hanno messo i cosiddetti Guantanamo Five, cinque capi talebani che hanno passato dodici anni chiusi nel carcere speciale di Guantanamo e che furono liberati dagli americani nel 2012 in cambio del soldato catturato Bowe Bergdahl. A guidare le trattative c’è il Mullah Baradar, uno dei quattro membri fondatori dei talebani assieme al leader supremo Mullah Omar che nel frattempo è morto. Baradar era riuscito a fuggire dall’Afghanistan dopo l’intervento americano, era stato arrestato a Karachi in Pakistan nel 2010 ed è stato liberato nel 2018 dal governo pachistano proprio per guidare i negoziati. Perché qualcuno dovrebbe credere che il profilo ideologico dei talebani si sia nel frattempo ammorbidito rispetto a vent’anni fa è un mistero che nessuno si premura di spiegare.

 

I talebani sono tornati abbastanza forti da conquistare progressivamente molte province e molte regioni del paese ed esercitano gradi diversi di controllo su circa una metà del territorio afghano. In alcuni distretti sono il potere effettivo e indisturbato, in molti altri distretti competono contro il governo che per adesso grazie soprattutto alla presenza delle truppe – e quindi anche di elicotteri e aerei – riesce a rallentare il declino della sua presenza. Una settimana fa i talebani hanno massacrato circa duecento soldati delle forze speciali afghane – quelli addestrati dagli americani – in due attacchi a due differenti basi militari. Sono così in vantaggio che a volte lanciano operazioni a catena, conquistano una posizione dell’esercito e poi quella dopo e poi quella dopo ancora. Se anche le forze speciali cedono, il resto dell’esercito ha ancora meno speranze di prevalere soprattutto se sarà lasciato da solo.

 

Durante i negoziati i talebani hanno assicurato che non permetteranno a gruppi terroristi di usare il paese per lanciare operazioni contro altri stati, ma i precedenti non sono a loro favore. Nel 2001 quando l’Amministrazione Bush intimò loro di consegnare il leader di al Qaida, Osama bin Laden, loro risposero che prima volevano vedere le prove che fosse davvero responsabile degli attacchi dell’11 settembre, poi offrirono un processo in Afghanistan davanti a un tribunale islamico e infine offrirono di consegnarlo – mentre già Bin Laden era irreperibile – a un paese terzo “che non può essere influenzato dagli Stati Uniti”. Prima del settembre 2011 la presenza di Bin Laden in Afghanistan era un fatto pubblico, è probabile che se i talebani controllassero di nuovo il paese allora l’organizzazione terroristica sceglierebbe un profilo meno vistoso – ma non per questo meno pericoloso. Il nuovo-vecchio Afghanistan sarebbe un ambiente ostile per i terroristi di al Qaida e per le decine di altri gruppi estremisti che orbitano in quella zona? C’è da dubitarne.

  

I talebani sono in guerra anche con lo Stato islamico, che in Afghanistan ha creato una sua divisione operativa che considera i guerriglieri traditori della vera religione al servizio di stati infedeli come il Pakistan. Lo Stato islamico rimprovera insomma ai talebani di essere troppo poco estremi. Negli ultimi due anni il contingente americano ha concentrato la maggior parte della sua attenzione e delle sue operazioni di combattimento contro lo Stato islamico soprattutto nelle regioni del sud e questa è una delle ragioni dell’avanzata dei talebani. Senza americani, non è detto che i talebani riuscirebbero a contenere lo Stato islamico. In alcune province dove ci sono stati scontri diretti hanno perso, in altre hanno vinto. L’idea che molte parti dell’Afghanistan potrebbero diventare negli anni a venire l’arena di una guerra permanente fra Stato islamico e talebani per il controllo di territori più o meno lontani dalla capitale Kabul non getta una luce ottimista sul ritiro occidentale, ma questa è la direzione verso cui soffia lo spirito del tempo.

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)