Salvare dal populismo il diritto del mare
Le 47 persone sulla Sea Watch 3 sono parte della tattica del governo: farsi ascoltare creando casi diplomatici. Ma la strategia del caos non porta frutti e nasconde guai più grandi: il naufragio della legge e dell’umanità
Ci sono i tedeschi della ong Sea Watch, ci sono gli olandesi con la loro bandiera sulla nave Sea Watch 3, ci sono i libici con la loro Guardia costiera ancora da formare (eufemismo: l’Italia ci ha investito molti soldi, ma ci sono molti sospetti sul suo operato), ci sono i tunisini che pare non abbiano risposto alla richiesta di approdo di Sea Watch 3, ci sono i maltesi che non hanno dato autorizzazione allo sbarco, ci sono gli italiani al governo che non danno autorizzazione allo sbarco e chiedono che a occuparsi della faccenda siano tutti gli altri (olandesi, maltesi, tunisini, libici), c’è la procura di Siracusa che ha aperto un’inchiesta, e ci sono 47 migranti – tra cui 13 minori – che, a bordo della Sea Watch 3 dal 19 gennaio, salvati da un gommone che stava naufragando, raccontano le loro storie di violenza, fuga e disperazione a chi le voglia ascoltare. A due passi c’è il porto di Siracusa, e dietro le spalle il Mediterraneo, il nostro mare in cui, secondo i dati di Missing Migrants, sono morte o sono disperse 17.848 persone dal 2014 a oggi (207 solo nel 2019, nel 2015 le vittime erano, a fine gennaio, 209).
In mezzo c’è il diritto del mare, che sta naufragando sotto i colpi delle assimilazioni pretestuose tra sbarchi dei migranti e accoglienza dei migranti, ma che è l’unica normativa che prevale su ogni propaganda e arbitrarietà – al punto che ormai nei palazzi della diplomazia, in questa stagione senza diplomazia, circolano documenti in cui si copiano e incollano definizioni e testi giuridici, senza commenti, solo un “leggete qui” al neon per spazzare via tutti i fraintendimenti. Il diritto del mare non è materia semplice, ma i suoi princìpi ispiratori sono già più comprensibili – prima dei tecnicismi ci sono diritti umani e buon senso – e sono stati fissati in tre testi fondamentali: la Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare (Solas), firmata a Londra nel 1974, la Convenzione sulla ricerca e il salvataggio marittimo (Sar), firmata ad Amburgo nel 1979 e la Convenzione dell’Onu sul diritto del mare (Unclos), firmata a Montego Bay nel 1982.
In questi trattati, viene sancito l’obbligo del salvataggio in mare che spetta da un lato, secondo l’articolo 98.1 della Unclos e il capitolo V della Solas, ai comandanti delle navi – è il motivo per cui i cargo commerciali vorrebbero attraversare il Mediterraneo a occhi chiusi perché fermarsi a salvare naufraghi è obbligatorio ma dispendioso, come dimostrò il caso del cargo danese Maersk nel giugno dello scorso anno – e agli stati geograficamente interessati, cioè affacciati sul mare in questione. Secondo la Unclos, questi stati sono obbligati a istituire e mantenere un adeguato ed effettivo servizio di ricerca e soccorso, e di creare una rete di collaborazione con gli stati limitrofi attraverso accordi multilaterali – i Protocolli di Palermo del 2000, per la prevenzione e la soppressione del traffico di uomini e di armi, sono tra questi, così come gli accordi bilaterali del 2007 e del 2008 (il cosiddetto Trattato di amicizia) tra Italia e Libia.
La Sar impone un obbligo di soccorso e assistenza in mare e il dovere di sbarcare i naufraghi in un luogo sicuro: nel 2004, gli stati membri dell’International Maritime Organization (Imo) hanno approvato emendamenti alla Solas e alla Sar, che prevedono un coordinamento tra stati per lo sbarco e per sollevare i comandanti delle navi dall’assistenza, che in parole semplici vuol dire che i comandanti non devono tenersi a bordo i naufraghi se non per il tempo necessario ad arrivare al primo luogo sicuro disponibile per l’approdo. Sulle “search and rescue areas” (le Sar) ci sono due problemi: la Sar di Malta si sovrappone a quella italiana e Malta non ha firmato gli accordi di Valencia del 1995 sulle Sar perché non ha l’equipaggiamento navale sufficiente a gestire una Sar così grande; la Sar libica è stata notificata all’Imo nel giugno dello scorso anno, ma i suoi porti continuano a non essere considerati sufficientemente sicuri per lo sbarco (tutto il paese non è considerato un “place of safety”).
Secondo l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, negare l’attracco di una nave che ha salvato persone in mare costituisce una violazione di queste tre convenzioni. Secondo i dati del Viminale, dall’1 al 28 gennaio sono sbarcate 155 persone nei porti italiani. Tra giugno e dicembre del 2018, da quando è stata lanciata la cosiddetta politica dei porti chiusi, sono sbarcate 3.293 persone – a Malta 1.124: secondo le proporzioni tra arrivi e popolazione, è come se in Italia fossero sbarcate 148 mila persone (Malta ha 460 mila abitanti). Le 47 persone sulla Sea Watch 3 sono quindi parte della tattica del governo italiano: per farsi ascoltare, bisogna creare un caso diplomatico. Con molte conseguenze: se passa l’autorizzazione a procedere al Senato, il ministro Matteo Salvini può essere processato per sequestro di persona, omissione di atti d’ufficio e arresto illegale. Si fa riferimento al caso Diciotti, la nave militare alla quale è stato impedito di far sbarcare 190 persone partite dalla Libia.