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C'è davvero bisogno di Mr Starbucks per spodestare Trump?

Paola Peduzzi

La quasi candidatura di Schultz ha creato molti interrogativi, che non riguardano solo gli americani e Trump ma in generale l’opposizione a leadership populiste. Riflessioni sui candidati centristi

Milano. I democratici americani sono furiosi, giurano che non entreranno mai più in uno Starbucks in vita loro, “ho chiuso con il caffè di Starbucks”, ha tuittato Neera Tanden, presidente del think tank obamiano Center for American Progress. Il motivo è la quasi candidatura di Howard Schultz, l’inventore di Starbucks, che ha lasciato intendere di volersi presentare alle elezioni del 2020 come indipendente, perché il Partito democratico – che lui ha ampiamente finanziato negli ultimi trent’anni – è scivolato a sinistra, ha tradito la sua essenza moderata, e da quell’angolo estremo non può certo pensare di sconfiggere Donald Trump. La scelta non è ancora stata fatta, Schultz dice che scioglierà la riserva prima dell’estate con tutta calma, ma intanto ha pubblicato un libro – “From the Ground Up: A Journey to Reimagine the Promise of America” – questa settimana e ha iniziato il book tour che lo porterà in giro per l’America nei prossimi due mesi e mena duro sui democratici, rivendicando la propria storia iniziata in una casa popolare di Brooklyn, la propria granitica certezza moderata, e il suo sogno americano: cos’è, ora è un peccato diventare ricchi? Ce l’avete con me perché ho avuto successo?, ripete Schultz nei talk-show che lo ospitano felici perché il sangue, ancorché politico, fa sempre audience.

 

La quasi candidatura di Schultz ha creato molti interrogativi, che non riguardano solo gli americani e Trump ma in generale l’opposizione a leadership populiste. I democratici furiosi dicono che una candidatura terza di un ex democratico può far male soltanto ai democratici; Schultz risponde che i democratici non rappresentano più l’elettorato moderato e che il corteggiamento di idee “socialiste” (lui le chiama così, noi europei sorridiamo) porta alla bancarotta del paese e che l’unico modo per vincere è conquistare i moderati repubblicani tramortiti da Trump. Perché non partecipare alle primarie democratiche? Perché con tutta probabilità Schultz non le vincerebbe: non soltanto vanno forte le idee più sinistrorse, ma vanno anche i leader caldi, appassionati, imprecisi e improvvisati magari, ma con un cuore. Schultz è insomma troppo di destra e troppo tecnocrate (e troppo anni Novanta, che per i provinciali che guardavano all’America erano Bill Clinton, i Nirvana e, appunto, Starbucks).

 

Poiché non c’è grande amore per le candidature terze, nel paese del bipartitismo assoluto, Schultz potrebbe allora tentare la strada della guerra interna: candidarsi tra i repubblicani (che è un po’ quello che ha fatto Trump). Ne sarebbe felice l’ex direttore del magazine conservatore Weekly Standard Bill Kristol, un nevertrumper tutto d’un pezzo che non vuole però lasciare ai democratici l’occasione ghiotta di scalzare il presidente: i repubblicani dovrebbero fare delle primarie serie, nonostante ci sia l’incumbent Trump, perché i dati dicono – lui cita quelli del New Hampshire, che è tra i primi stati in cui si vota alle primarie – che un qualsiasi candidato alternativo a Trump avrebbe un gran successo tra gli elettori repubblicani.

 

L’America, e non solo, non ha ancora capito se un presidente come Trump, o il trumpismo stesso, si combatte dal centro o con uno scontro tra radicali, populismo contro populismo. Alexander Burns, giornalista del New York Times, ha scritto un articolo molto bello dal titolo: “C’è spazio per un centrista democratico nel 2020? Forse uno o due”. Burns ricorda che l’elettorato che si definisce “moderato” esiste ed è anche predominante nel Partito democratico (a gennaio, Pew Research ha rilevato che il 53 per cento dei dems vuole un partito più moderato, il 40 più radicale), ma chi può conquistarlo? Ed è sufficiente per spodestare Trump? Per ora il quasi candidato Schultz mostra che se scontro identitario dev’essere, che sia dentro ai partiti tradizionali: gli indipendenti di solito, in America, aiutano gli incumbent.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi