Trump double face
Il presidente apre ai democratici, ma si capisce che è un tentativo debole. Il trumpismo prima di tutto
New York. Il Washington Post ha definito quello di Trump sullo stato dell’Unione “due discorsi in uno”. Da una parte c’era il presidente che ha bisogno di aprire ai democratici perché dopo la vittoria con ampio margine alle elezioni di metà mandato di novembre hanno una maggioranza decisiva alla Camera e quindi non soltanto possono intervenire nelle decisioni del presidente, ma hanno anche il potere di condurre inchieste, di convocare testimoni e di ottenere documenti. Dall’altra c’era il presidente che non perde mai di vista la sua base elettorale e deve sempre galvanizzarla costi quel che costi con frasi a effetto e rinfocolando l’odio contro i democratici. “L’America non sarà mai un paese socialista”, ha detto, e ha anche detto a proposito del muro al confine con il Messico: “Lo farò”. Così il discorso di Donald Trump ha oscillato fra aperture inedite ai rivali politici e il repertorio retorico già sentito altre volte, come la citazione delle bande di immigrati pericolosi.
“Dobbiamo respingere la politica delle vendette, della resistenza e della rappresaglia – aveva detto all’inizio – e abbracciare il potenziale illimitato della cooperazione, del compromesso e del bene comune”, dove il riferimento chiaro è alla Resistenza, che è il motto di un ampio movimento trasversale che vede l’Amministrazione Trump come un orrendo incidente della Storia che dev’essere sopportato il meno possibile in attesa della sua eliminazione. Il presidente ha anche inserito un elemento di pressione: “Un miracolo economico sta avvenendo negli Stati Uniti e le sole cose che potrebbero bloccarlo sono le guerre stupide, la politica o indagini di parte e ridicole”, come a dire: se continuate a fare inchieste su di me mettete a repentaglio questa stagione economica favolosa.
All’indomani della vittoria dei democratici alle elezioni di metà mandato Trump si era mostrato disponibile a lavorare su alcune materie assieme all’opposizione. La riforma delle infrastrutture americane in cattivo stato, per esempio, oppure la riduzione del prezzo di alcuni farmaci. Se ci riuscisse, non soltanto incasserebbe il dividendo bipartisan di leggi che nei sondaggi sono viste molto bene dagli americani, ma potrebbe sperare di creare qualche dissonanza tra i democratici, che un po’ lavorano assieme a lui e un po’ lo dipingono come un mostro e lo indagano. E’ la ragione per cui Nancy Pelosi, la leader dei democratici al Congresso, finora è sfuggita al trattamento Trump di affibbiare nomignoli su Twitter (Hillary la corrotta, Marco Rubio il piccoletto), un trattamento sprezzante che non ha risparmiato nemmeno molti repubblicani. “Io la chiamo Nancy”, ha tagliato corto due settimane fa.
Si tratta di una strategia deliberata, e tuttavia l’apertura ai democratici ha un ruolo minore e alternativo alla base dei fedeli di Trump, che verrà sempre prima di tutto perché è l’unico capitale che possiede in vista delle elezioni del 2020. Come si deduce dalle risposte che poche ore prima del discorso aveva dato ad alcuni giornalisti televisivi con i quali aveva pranzato, sapendo bene che le sue frasi tranchant sarebbero finite sui siti di notizie pochi minuti dopo. Cose come “vorrei che il mio avversario alle elezioni fosse Joe Biden perché è scemo” e Chuck Schumer, la spalla della riverita Pelosi, “è un brutto figlio di puttana”.
Il discorso contiene un gran “possiamo lavorare assieme” rivolto ai democratici, una minaccia “non rovinate questo successo economico che stiamo attraversando”, e la rassicurazione ai trumpiani che alla fine per volume e intensità prevale su tutto il resto: sono sempre io, il Trump che vi piace.