Trump passa più della metà del suo tempo alla tv: è un genio o Homer Simpson?
“Executive time” è il nome in codice per tutte le ore passate dal presidente americano davanti la televisione, su Twitter, al telefono o facendo tutte e tre le cose insieme: il sessanta per cento delle ore lavorative
Roma. Forse ricordate una puntata dei “Simpson” in cui Homer, disperato, chiede a sua figlia Lisa di accendere la televisione appena spenta perché stava “ricominciando a pensare”. Aggiungete Twitter, l’iPhone, un cimitero di lattine di Diet-Coke sparse per terra ed entrerete nel dramma delle interminabili giornate di Donald Trump.
La stampa lo racconta ormai da mesi ma adesso spuntano dati e documenti. La solita “fonte interna alla Casa Bianca” ha fatto circolare l’agenda con gli impegni giornalieri del presidente. Una delle voci più ricorrenti è racchiusa in una formula inventata dall’ex-capo di gabinetto, John Kelly: “executive time”, nome in codice per tutte le ore passate da Trump davanti la tv, su Twitter, al telefono o facendo tutte e tre le cose insieme. Fatti i rapidi calcoli si arriva al sessanta per cento delle ore lavorative di una giornata presidenziale media. Il comportamento di Trump viene definito “senza precedenti” rispetto a quello dei suoi predecessori. Ma è anche vero che se Eisenhower, Reagan o Bush padre avessero passato la mattinata a letto, non lo avremmo mai saputo. Quanto alla passione di Obama per “True Detective” o “Game of Thrones”, quella ovviamente era “cool”. Le abbuffate televisive di Trump no. E’ il sottile confine tra binge-watching e “executive time”. Chi pensa che una notizia del genere dovrebbe indignare l’opinione pubblica si sbaglia di grosso, visto che è esattamente così che si comporterebbero la maggior parte degli americani trovandosi improvvisamente catapultati alla Casa Bianca.
Per tutti gli altri, Trump che guarda la tv fa probabilmente meno paura di Trump che fa cose.
L’immagine del presidente americano sul divano, incollato davanti a Fox News, il suo canale preferito, mentre apre una lattina dopo l’altra, dice tutto quel che c’è da dire sul nostro tempo. Un po’ come se il Grande Lebowsky finisse nello Studio Ovale. C’è tutta la reazione passiva dell’uomo comune alla complessità del mondo, un po’ come il muro col Messico, i dazi, la chiusura delle frontiere.
Ronald Reagan costruì la sua immagine pubblica sulla potenza del cinema americano e del suo spirito di conquista. Quando definiva la Russia “Impero del Male” pensava a “Star Wars”, e per liberare gli ostaggi americani in Libano si ispirava a “Rambo” (“dopo che ho visto Rambo, so cosa fare”, come disse nel 1985).
Per Trump le vie del mito americano sono sbarrate. Trump non viene dal cinema, né dalla politica, ma dai reality-show. Un mondo dove non ci sono eroi o battaglie, solo concorrenti che vincono o perdono in base ai voti del pubblico. La sua presidenza non assomiglia a un reality, la sua presidenza è un reality. Gli hanno tolto “The Apprentice” dopo quattordici stagioni e gli hanno dato la Casa Bianca. Il più bel giorno come presidente è stato quando è venuto a trovarlo Kim Kardashian per parlare della riforma delle carceri. La difesa della portavoce per giustificare tutto quell’“executive time” fa quasi tenerezza: “E’ il tempo che si concede per avere un contesto più creativo, ed è ciò che lo rende il presidente più produttivo nella storia contemporanea”. Praticamente un genio. Come quelle pubblicità in cui puoi farti venire gli addominali dormendo. Donald Trump come sintesi perfetta tra i due estremi della mitologia televisiva americana: da un lato Homer Simpson sbracato sul divano, dall’altro tutti quei bambini prodigio con gli occhi incollati davanti la tv, quei piccoli geni allevati per sbancare i game-show, raccontati da film come “Magnolia” di Paul Thomas Anderson o dai libri di David Foster Wallace: “Possiamo passare ore a scrivere ma ciò non toglie che facciamo parte ogni santo giorno del Grande Pubblico e che non possiamo neanche immaginare, letteralmente, una vita senza tv”. Trump sarebbe d’accordo.