Nella Siria d'Asia. Reportage dal misterioso Rakhine
E' lo stato più difficile del Myanmar, dove lo scontro tra etnie svela ben altri interessi
"Laggiù non ti ci porto” dice il giovane autista del tuk-tuk di Mrauk-U, antica capitale del regno di Arakan, oggi un grosso villaggio del Rakhine, lo stato dell’Unione del Myanmar che delimita a ovest il paese noto come Birmania, tra il Bangladesh e il Golfo del Bengala.
Laggiù non è lontano: è una stradina in terra battuta che interseca la strada principale. Ma nelle capanne che ai suoi margini è stanziata una delle comunità musulmane dell’area.
Foto di Massimo Morello
Lo stato meno sviluppato del paese, con un tasso di povertà del 78 per cento, al centro dell’attenzione occidentale per le vicende dei rohingya
Gli attacchi dell’Arakan Army all’inizio di quest’anno hanno innescato un’escalation che rischia di sfuggire a ogni controllo
“Prima non c’erano problemi. Ma adesso per colpa loro qui non si può più vivere. Dobbiamo andare a lavorare nelle miniere dei bamar, i birmani. Nei nostri villaggi restano solo i vecchi e i bambini”, dice l’autista.
“Siamo Rohingya, viviamo qui da molti anni, la nostra moschea ha più di mille anni”, dice Allam, il preside della scuola locale, riaffermando un’identità negata, quella rohingya, oggi divenuta protagonista di infinite narrazioni. “Vivevamo in pace. Ma adesso non possiamo più muoverci, dobbiamo restare nel villaggio”.
In Rakhine si materializza in modo tragico il tribalismo come nuova categoria geopolitica. Quello stato, il meno sviluppato del Myanmar, con un tasso di povertà del 78 per cento, dal 2012 è al centro dell’attenzione e della condanna occidentale proprio per le vicende dei rohingya, intrappolati in un perenne ciclo di persecuzioni e fuga. Che hanno innescato una reazione a catena sempre più estesa e confusa. Le ultime conseguenze si sono manifestate con gli scontri tra l’Arakan Army (AA) e il Tatmadaw, l’esercito del Myanmar, culminati nei primi giorni di gennaio, quando 350 miliziani dell’Arakan Army hanno lanciato un attacco coordinato a quattro posti di polizia al confine col Bangladesh, uccidendo 13 poliziotti e ferendone nove. Scontri che hanno provocato l’esodo di circa cinquemila Idp (internally displaced persons, come ormai sono denominati i profughi) che hanno trovato rifugio negli uffici pubblici e nelle pagode. La maggior parte si sono accampati sulla riva sinistra del fiume Kaladan, ma se ne vedono alcuni all’ombra dei chiostri della pagoda Mahamuni, sulla strada per Mrauk-U, luogo sacro e muro del pianto degli arakanesi. In questo posto, stando alla tradizione, circa 2.600 anni fa, si fermò il Budda. E la sua statua fu portata via dai bamar, il gruppo etnico dominante, nel 1784, quando conquistarono il regno buddista dell’Arakan.
Malati al centro medico di Mrauk U della Rakhine Medical Mission (foto di Massimo Morello)
Gli scontri tra le milizie dell’AA e l’esercito birmano derivano da una storia antecedente e solo in parte intersecata a quella dei rohingya e dei musulmani che nel corso dei secoli hanno raggiunto la Birmania. L’AA è un gruppo etno-nazionalista che rivendica la sovranità del Rakhine, simbolicamente sottolineato dall’uso dell’antica denominazione di Arakan: per i buddisti arakanesi il nemico non sono i musulmani, bensì gli oppressori bamar. Antagonismo ampiamente condiviso dai bamar. “A Yangon si dice: se incroci un cobra e un arakanese, leva di mezzo prima l’arakanese”, avverte un espatriato occidentale che ha esperienza personale delle dinamiche etniche locali. Arakanesi e musulmani – il termine rohingya si è diffuso solo negli ultimi anni – dunque, erano accomunati dalla discriminazione e dall’oppressione dei bamar, incarnati nelle divise verdi oliva di Tatmadaw. E’ per questo che tutti, musulmani e arakanesi, ripetono come un mantra: “Qui vivevamo in pace”.
“In Arakan buddisti e musulmani vivevano in pace, non c’erano i presupposti di una guerra di religione”, afferma Tin Mar Aung, che per quasi vent’anni è stata l’ombra, la confidente, il capo dello staff di Aung San Suu Kyi. “Ma poi si è creato un clima di diffidenza. Si è rotta la fiducia”. Tin Mar ripete quanto detto in una precedente intervista al Foglio: secondo lei i responsabili della catastrofe sono i bamar che hanno sfruttato l’Arakan e il suo popolo, e alcuni mullah locali, addestrati e indottrinati in Bangladesh. Ora, mentre si trova a Mrauk-U con una missione medica – è medico lei stessa – Tin Mar pensa soprattutto alla condizione della sua gente, a quelle centinaia di persone che dalla notte precedente stanno facendo la fila davanti alla piccola clinica intitolata a suo padre. “Qui ci sono sei dottori per centomila persone. Noi veniamo periodicamente: visitiamo mille pazienti il giorno. Sì, anche profughi”. Sono soprattutto vecchi e donne afflitte da spondilosi per i carichi che devono portare ogni giorno, soprattutto l’acqua dai pozzi. “I giovani sono costretti ad andarsene: vanno a lavorare nelle miniere di giada al nord. Oppure diventano corrieri della droga. Quelli che restano bevono. In Arakan l’alcool costa meno dell’acqua”.
In questo “popolo disperato”, come lo definisce Tin Mar, la questione rohingya ha creato una violenta reazione emotiva. In quelli che definiscono “migranti illegali dal Bangladesh”, vedono non solo degli avversari in una guerra tra poveri, ma soprattutto coloro che hanno conquistato il principale ruolo di vittime sulla scena globale, offuscando così le loro miserie. Uno scenario che di giorno in giorno si complica e si tribalizza anche grazie ai “Minority Report” delle organizzazioni internazionali. Come conferma indirettamente una funzionaria incontrata a Yangon: la sua maggiore preoccupazione non sembra quella di aiutare le popolazioni locali, bensì di farlo se in queste si possono identificare delle minoranze, sottintendendo che le minoranze non possono essere altro che rohingya. E’ un fatto che nella percezione e nella narrazione corrente anche le vittime degli ultimi scontri e i rifugiati arakanesi sono spessi confusi o identificati con i rohingya. “Raccogliamo fondi per i ‘nostri’ profughi” grida un giovane manifestante a Mrauk-U, e quel “nostri” suona come una rivendicazione.
In Arakan, tutto appare misterioso come il Byala, animale mitico che ne è simbolo: formato dall’unione di nove animali, veri e fantastici, appare già in opere sacre del IV secolo. E inquietante come il risorgente culto del weikza, figura dai poteri sovrannaturali che unisce in sé le caratteristiche del monaco e del mago ed è il simbolo del fondamentalismo buddista.
“E’ sempre facile parlare di qualcosa che non conosci. A livello internazionale c’è stata una riluttanza generale a farsi coinvolgere nelle narrazioni storiche”, commenta Jacques P. Leider, responsabile dell’École Française d’Extrême-Orient per il Myanmar, studioso dell’antica storia dell’Arakan. Leider è una delle poche voci fuori dal coro, probabilmente perché mette in guardia contro ogni lettura semplice e moralistica del problema arakanese, quella che Leider definisce freddamente come “vittimizzazione”. “La retorica della vittimizzazione consente di assegnare a noi stessi la parte di vittime o salvatori delle vittime e drammatizzare gli avversari prescelti come demoniaci senza alcuna qualificazione”, ha scritto. La sua, invece, è un’analisi storica, scientifica (in quanto tale oggi ferocemente criticata) che risale al mito arakanese dell’arrivo del Budda in questa regione e al mito rohingya (non se ne hanno prove storiche) secondo cui i musulmani sarebbero arrivati in Arakan nel VII secolo.
Un poliziotto di guardia all'ingresso di un monastero al villaggio musulmano (foto di Massimo Morello)
L’analisi di Leider, a dispetto delle critiche, non è un esercizio accademico: potrebbe offrire la chiave per comprendere perché, nel corso dei secoli, il gioco delle parti tra arakanesi e musulmani si sia stratificato e poi confuso tra repressione e sottosviluppo economico. Permette di comprendere, ad esempio, che la definizione dei musulmani come migranti illegali sia scorretta, tanto quanto la negazione assoluta di un’immigrazione illegale. Lo stesso termine “rohingya”, che ha assunto il valore di stigma nelle sue accezioni più estreme, secondo Leider designa l’Arakan nel dialetto del Bengala orientale parlato dagli abitanti del nord Arakan e si è caricato dei suoi significati etnici e politici solo negli ultimi anni. “Per formulare la questione in modo molto informale, dal 2012 i musulmani dell’Arakan sono più ‘rohingya’ che mai” ha scritto lo storico.
“Tutti usano i rohingya. E così gli arakanesi sono divenuti come l’erba tra due bufali che combattono”, dice Tin Mar. In realtà i bufali sono più ben di due e nella ferocia del combattimento è sempre più difficile distinguerli. E’ quanto accade dal 2012, quando in Arakan si scatenò un vero e proprio pogrom dei musulmani. Quell’esplosione di violenza, che da allora non si è mai spenta, apparentemente fu provocata dallo stupro di una giovane arakanese, ed è stata alimentata dal sorgere di un estremismo buddista di matrice etno-religiosa, come quello rappresentato dal MaBaTa, acronimo birmano per il Comitato per la protezione della Razza e della Religione. Sull’altro fronte risorgeva la militanza islamica con il Movimento della Fede Harakah al-Yaqin, poi ribattezzato Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa), finanziato e addestrato da cellule di Al Qaida e dello Stato islamico (almeno secondo fonti dell’intelligence indiana e del Bangladesh).
Questa miscela tossica è stata esacerbata dalla narrazione dei fatti in cui ogni violenza, compresi gli attacchi dell’Arsa a villaggi arakanesi, veniva immediatamente addebitata ai buddisti arakanesi, rappresentati come alleati de facto della feroce dei militari. “Un’operazione di distrazione di massa”, dice Tin Mar, che denuncia l’“interpretive reporting” pilotato da sofisticate strategie di comunicazione delle lobby islamiche.
“Ci sono giochi di potere enormi: per i paesi del Golfo la strategia sembra quella di collegare Malaysia e Bangladesh in una sfera di influenza islamica”, dice un missionario che opera nei villaggi al confine col triangolo d’oro. S’intravede così una versione soft del Califfato Islamico in sud-est asiatico predicato dall’Isis. Ma tutto ciò è servito soprattutto a delegittimare Aung San Suu Kyi, l’angelo caduto dell’occidente che in Myanmar è invece considerata troppo morbida nei confronti dei musulmani. Tanto che alle elezioni del 2015 in Rakhine la maggioranza dei seggi è andato all’Arakan National Party, formazione autonomista che ha sopravanzato la National League for Democracy (Nld) della Signora.
“A Yangon si dice: se incroci un cobra e un arakanese, leva di mezzo prima l’arakanese”. Le divisioni, e poi il conflitto etnico
“Per i paesi del Golfo la strategia sembra quella di collegare Malaysia e Bangladesh in una sfera di influenza islamica”
“In realtà il governo è molto poco rilevante in questa situazione”, commenta Ben Dunant, caporedattore di Frontier Myanmar, settimanale in lingua inglese che si vanta di essere “una voce imparziale”. “Quando si arriva a una situazione che riguarda la sicurezza nazionale il governo non ha potere. E alla fine qui si arriva sempre a una situazione di sicurezza nazionale”.
In questo gioco di tutti contro tutti in cui Tatmadaw, l’esercito, usa i pregiudizi e i risentimenti reciproci per controllare il Rakhine, si è inserito l’Arakan Army. Una delle più piccole milizie etniche birmane, sino a poco tempo fa ha operato lontano dal suo territorio, sotto l’ombrello della cosiddetta Alleanza del Nord, che raggruppa alcune delle milizie più agguerrite, in particolare il Kachin Independence Army (forte di circa 7.000 uomini ben armati). Ed è stato proprio nello stato Kachin, all’estremo nord del paese, sul confine con la Cina, che ha reclutato molti dei suoi uomini (oggi circa 3.500), tra i giovani arakanesi che lavorano nelle miniere di giada di Hpakant. Negli ultimi anni, ancor più in seguito alle manifestazioni antigovernative del gennaio 2018, la milizia si è rafforzata anche in Rakhine. “Tutte le etnie hanno un esercito, quindi anche gli arakanesi lo vogliono”, dice Tin Mar e, sia pure con tono di disapprovazione, sembra quasi che spieghi una legittima rivendicazione popolare.
Gli attacchi dell’Arakan Army all’inizio di quest’anno, però, hanno innescato un’escalation che rischia di sfuggire a ogni controllo. Con una risposta senza precedenti, è stata la stessa Aung San Suu Kyi, infatti, a ordinare la violenta reazione dell’esercito, qualificando l’Arakan Army come “gruppo terroristico”, accusato di complicità con l’Arsa (unico altro gruppo armato definito terrorista secondo la legge Anti-Terrorismo del 2014). Se non l’avesse fatto, stando alla dichiarazione del portavoce del governo U Zaw Htay, avrebbe prestato il fianco a nuove critiche della comunità internazionale, che l’avrebbe accusata di pregiudizi religiosi per non aver riservato lo stesso trattamento a terroristi islamici e buddisti. Il conto, però, lo sta pagando sul fronte interno, specie in Rakhine, dove tutto ciò appare la prova del suo appoggio ai musulmani.
I militari sembrerebbero favoriti da questa situazione, soprattutto in vista delle elezioni del 2020, quando l’Union Solidarity and Development Party (Usdp), il loro partito, potrebbe riguadagnare terreno se non superare la National League for Democracy, materializzando così una dittatura perfetta: quella sancita dal popolo oltre che dalla forza. Nel frattempo, però, il Rakhine potrebbe trasformarsi nella Siria del sud-est asiatico.
Secondo molti osservatori, tuttavia, i veri protagonisti di questa storia, più che i militari, ritenuti incapaci di elaborare machiavellismi tanto sofisticati, sono i signori della guerra a capo delle narcomilizie etniche che non solo si finanziano col traffico di droga ma che in questo trovano la loro legittimazione.
Foto di Massimo Morello
“I trafficanti vogliono controllare il territorio e cercano sempre nuovi sbocchi”, dice il missionario. La crisi in Rakhine, con il caos interno e la facilità di reclutare corrieri tra i giovani e i rifugiati, ha aperto quello in Bangladesh, dove si stima che circa sei milioni di persone siano già consumatori delle metanfetamine prodotte nei territori Shan e Kachin. Una pillola scadente di yaba, la droga che fa impazzire, costa meno di una birra. E’ il combustibile dei più poveri.
“E’ un casino che vorremmo capire secondo le nostre logiche e invece lo alimentiamo” commenta quel missionario che coniuga la sua vicinanza ai dannati della terra con la distanza dalle nuove retoriche.