Il debole Pedro Sánchez
In Spagna si parla di elezioni anticipate, mentre comincia il processo del secolo ai dirigenti catalani
Milano. Sono cominciati domenica i quattro giorni che decideranno il futuro del governo della Spagna e di quello che, fino a pochi mesi fa, era considerato come uno dei leader più promettenti della sinistra europea, il socialista Pedro Sánchez. Domenica, infatti, a Madrid c’è stata una manifestazione molto corposa (hanno partecipato 45 mila persone) delle forze di ultradestra, destra e centrodestra contro il governo, e in special modo contro la sua politica nei confronti della Catalogna, giudicata troppo molle. Durante la manifestazione c’è stata la prima foto di gruppo con Santiago Abascal, leader del partito neofascista Vox, Pablo Casado del Partito popolare (Pp) e Albert Rivera di Ciudadanos. Vox non ha alcuna rappresentanza nel Parlamento spagnolo, e finora si è piazzato bene soltanto alle elezioni regionali in Andalusia, ma in pochi mesi Abascal è riuscito a diventare una figura di primo piano della politica nazionale e a vincere le resistenze perfino di Rivera, che inizialmente faceva lo schizzinoso. I sondaggi dicono che i tre assieme potrebbero vincere nuove elezioni.
La legislatura scade tra oltre un anno, ma ieri i giornali spagnoli non hanno fatto altro che parlare di un possibile ritorno alle urne. Il problema è questo: Sánchez, i cui socialisti hanno appena un quarto dei voti al Parlamento, si regge su un precario governo di minoranza, sostenuto da Podemos, il partito della sinistra radicale, e da un cartello di partitini di indipendentisti catalani e baschi, che hanno pochi seggi ma essenziali. Mercoledì comincia il dibattito parlamentare per la nuova legge Finanziaria, e da mesi Sánchez corteggia i partitini suddetti per il loro voto. Nonostante molte concessioni, la settimana scorsa i catalani hanno detto: non voteremo la Finanziaria se non sarà messo nero su bianco che il governo è pronto a parlare di autodeterminazione del nostro popolo. Una richiesta così non è ricevibile nemmeno per il dialogante Sánchez, che dunque si trova nei guai. Non è previsto un voto di fiducia, Sánchez potrebbe in teoria riconfermare la Finanziaria dell’anno scorso e andare avanti fino alla fine della legislatura con decretini poco ambiziosi, ma sarebbe come presiedere un governo zombi. Così, condannato dalla sua debolezza, è costretto a prendere in considerazione nuove elezioni, nella speranza che gli indipendentisti si prendano paura (se vince la destra le loro istanze sono defunte) e gli appoggino la Finanziaria. L’agenzia di stampa Efe ieri ha fatto circolare la data del 14 aprile, smentita dal governo (Sánchez dovrebbe sciogliere le Camere la settimana prossima), altri parlano del 26 di maggio, per fare un election day colossale che mette assieme europee, regionali, comunali e politiche.
Ma c’è la Catalogna che rimane un incubo ricorrente per tutta la politica spagnola. Domani infatti comincia il processo ai 12 dirigenti catalani che nell’ottobre del 2017 organizzarono il referendum illegale per l’indipendenza. Di questi , nove sono in prigione da tempo. Il processo sarà epocale: durerà mesi e saranno chiamati a testimoniare decine di personaggi di primissimo piano, compreso probabilmente l’ex presidente Mariano Rajoy. I giudici non dovranno decidere soltanto se gli imputati sono innocenti o colpevoli, ma anche, implicitamente, se il referendum del 2017 fu un atto politico legittimo o un tentativo di ribellione e sedizione. Sánchez, che ha cercato finora il dialogo con i catalani, non può che uscirne ancora più indebolito: il partito Vox è stato accolto tra gli accusatori dei 12 indipendentisti, e approfitterà della posizione.