L'appello della ragazza dell'Isis e il nostro tormento
Shamima Begum, la madre inglese dell’Isis che vuole tornare a casa ma dice: “Non mi pento”
Milano. “Portatemi a casa” scritto a caratteri enormi, sulla prima pagina del Times di Londra, e la foto di Shamima Begum, com’era il giorno che è scappata dal Regno Unito, nell’immagine delle telecamere dell’aeroporto di Gatwick con la sciarpa leopardata, quattro anni fa, e com’è ora, con il capo coperto, la lunga tunica nera, i guanti neri. Shamima oggi ha 19 anni, è il numero 28.850 del campo profughi di al Hawl, nel nord della Siria, ha perso due figli piccoli, il maschio di otto mesi per malnutrizione, la femmina di venti mesi per una malattia, è incinta e non sa più dove sia suo marito, un olandese di 27 anni che ha sposato appena è arrivata in Siria. Delle due teenager inglesi che scapparono con lei per raggiungere un’altra amica già a Raqqa e affiliata allo Stato islamico, Shamima non sa più nulla: una è sicuramente morta, le altre erano vive fino a qualche tempo fa, ma ora sotto i bombardamenti chissà dove sono finite. Nessuno, nel campo profughi, sa che lei è una di quelle ragazze inglesi: si scopre il capo davanti al giornalista del Times, Anthony Loyd, si fa riconoscere, ha bisogno che lui trasmetta il suo messaggio: voglio tornare a casa.
L’operazione di Shamima è chiara fin dall’inizio. Dice: “Non sono più la ragazzina scema che ero quattro anni fa, ma non mi pento di essere venuta qui”. Racconta delle torture subite per sei mesi da suo marito perché era stato preso per una spia, ma dice che di spie ce ne sono tantissime, “anche i giornalisti possono esserlo, sono una minaccia per la sicurezza del Califfato”. Dice che le giornate a Raqqa erano fatte di normalità e di atrocità, ma la prima volta che ha visto una testa mozzata buttata in un cestino, Shamima non si è per nulla turbata: “Era di un nemico dell’islam, ho solo pensato a cosa avrebbe potuto fare a una donna se solo ne avesse avuto la possibilità”. Spiega i continui spostamenti per sfuggire agli assedi delle Forze democratiche siriane e dei curdi, dice che le famiglie dello Stato islamico erano divise: c’è chi diceva di resistere e chi voleva arrendersi, chi sosteneva che la salvezza era la fedeltà alla causa jihadista e chi replicava che no, la salvezza era solo il tradimento. E intanto si scappava, donne, uomini, in gruppi piccoli per non farsi troppo notare, Shamima scappava, seguendo il marito, e quando il suo primo figlio è stato male lo ha portato in ospedale, ma non c’erano né medici né medicine, e il bambino è morto. Quando è stata male anche la figlia, e si continuava a scappare, Shamima ha deciso di andare in un’altra direzione: ero stanca, dice. Ma lo dice con rammarico, elogia le altre donne che hanno resistito, le amiche inglesi che erano forti, e anche tutte le altre, solo che lei non ce la faceva proprio più: “Voglio che il mio terzo figlio nasca nel Regno Unito, voglio tornare a casa”.
Il giornalista del Times e tutto il Times si sono prestati alla richiesta di Shamima, hanno pubblicato l’intervista con l’impaginazione che si riserva alle grandi campagne, ma questa non è una storia che parla di pentimento o di riconoscimento dei propri errori, non c’è una seppur tardiva responsabilizzazione. Shamima fa soltanto un appello per la propria sopravvivenza personale: non denuncia nulla di quello che è stato lo Stato islamico, non ha ripensamenti, soltanto prende atto del fatto che il gruppo con cui ha combattuto ha perso. “Non mi pento”, dice Shamima, trasformando lo Stato islamico in un’entità astratta.
Nella rappresentazione di Shamima lo Stato islamico perde nomi e riferimenti, perde la sua natura feroce e Shamima perde lo status di combattente – combattente infervorata che lascia l’occidente affascinata dalla causa islamista – per mettersi addosso gli abiti della madre, forse vedova, stanca. Di questi racconti ne stanno uscendo molti, e seguono tutti lo stesso schema: oggi voglio salvarmi, ma non rinnego niente. Così come nessuno si rappresenta come un soldato dello Stato islamico, ma tutti come aiutanti inermi, incauti, irresponsabili. Conquistano le prime pagine con le loro storie tragiche, ma non vogliono tornare a casa per cercare una redenzione, semplicemente perché hanno perso la guerra, e con i vinti bisogna avere compassione. Shamima dice: “Il Califfato è finito, c’era così tanta oppressione e corruzione che non penso meritasse la vittoria”, e ora vuole solo partorire e crescere suo figlio in un posto tranquillo. Eccolo, lo Stato islamico astratto. Ma la polemica arriva dritta contro i governi occidentali che non fanno abbastanza oggi per salvare i loro concittadini che sono scappati in Siria affascinati dall’Isis della sua stagione di forza e potenza e che sono rimasti incastrati nella sconfitta.
La gestione dei prigionieri dello Stato islamico è stata per ora data ai curdi che hanno liberato la Siria dal gruppo di al Baghdadi e all’Iraq: i giornali si riempiono di appelli e di denunce delle vendette che curdi e iracheni vogliono infliggere ai combattenti dello Stato islamico, le brutture dei conquistati che ora che hanno vinto possono riaversi sui conquistatori. E voi in occidente non fate nulla?, dicono i sopravvissuti, contando sul fatto che l’occidente si tormenterà sul destino di questi prigionieri. Lo sta già facendo: dobbiamo riprendere Shamima nel Regno Unito?, chiedevano ieri molti commentatori inglesi. No, non è pentita, dicevano alcuni; no, ma tanto siamo deboli e la riprenderemo e crescerà un altro jihadista, dicevano altri; sì, ma soltanto se possiamo mandarla a casa dei fondamentalisti dell’accoglienza. A chi non risponde resta il tormento, quel “non mi pento” che è testimonianza di una vita irrecuperabile, e la consapevolezza che finché ci saranno delle Shamima lo Stato islamico non sarà sconfitto.