Il discorso di Donald Trump alla Casa Bianca (Foto LaPresse)

Trump, la Brexit e noi: quando la politica della vanità scavalca l'interesse nazionale

Paola Peduzzi

Lo stato d’emergenza per il muro col Messico, la strategia della May e i nostri populismi

Milano. Ieri Donald Trump, presidente degli Stati Uniti, ha dichiarato lo stato d’emergenza per avere accesso ai fondi necessari alla costruzione del muro sul confine sud dell’America, contro “l’invasione di droga, trafficanti umani e ogni tipo di bande e criminali”. La battaglia al Congresso non gli è riuscita: è stata approvata una legge che pone fine alla minaccia dello shutdown parziale del governo – la sospensione temporanea dello shutdown finiva ieri: era il frutto di un precedente compromesso accettato da Trump e dai repubblicani dopo i 35 giorni di shutdown – senza stanziare fondi per il muro.

 

Molti fan del presidente – a partire dalla visibile e vociante Laura Ingraham di Fox News – gli hanno suggerito di non firmare la legge, di porre il veto, e di costringere così il Congresso a cedere sul muro. Trump è stato indeciso fino all’ultimo, voleva essere sicuro che la firma della legge non gli avrebbe precluso altre azioni, e così quando ha avuto questa certezza ha firmato e ha trovato un altro modo per esercitare il proprio potere esecutivo, tenere viva l’ossessione del muro, che è una promessa elettorale e uno dei pilastri della retorica trumpiana, e avere un messaggio semplice e chiaro per il suo elettorato.

 

Così ha annunciato lo stato di emergenza, che permetterà, secondo i calcoli, di mobilitare 8 miliardi di dollari, molti di più dei 5,7 che il Congresso gli ha negato (sempre secondo i calcoli, non sono comunque sufficienti per costruire e rendere operativo il “beautiful wall”, ma questa è un’altra faccenda). I repubblicani al Congresso gli avevano sconsigliato questa alternativa, ma come è capitato anche in passato, poi hanno tirato un sospiro di sollievo perché in questo modo Trump con tutto il suo partito si è tolto dall’angolo in cui era finito. Con tutta probabilità ci ritornerà, in quell’angolo, ma per il presidente non si tratta di capire come vincere (non era vincibile, questa battaglia congressuale) ma come perdere potendo dire di aver vinto.

 

Il meccanismo assomiglia molto a quello della gestione della Brexit nel Regno Unito e, come ha scritto Philip Stephens sul Financial Times, ha molto a che fare con la vanità. Stephens è impietoso nei confronti della premier britannica, Theresa May, dice che la sua “ostinata incompetenza” sta portando il paese sull’orlo di una “Brexit caotica” che è stata una “scelta” esplicita della May, che ha deciso di “ammanettare il paese al volante mentre si butta nel burrone”. Stephens sottolinea due altri elementi che in realtà valgono anche per Trump e il muro e più in generale per le tattiche populiste che sperimentiamo anche noi in Italia: non c’è nulla, nella strategia della May, “che porti avanti l’interesse del Regno Unito”, che protegga davvero quell’interesse nazionale prioritario nella retorica politica di molti leader attuali. L’intero processo, che a Londra è durato due anni, è stato determinato da altre priorità: tenere su la propria premiership mettendo in campo “inutili sforzi” per tenere insieme il proprio partito e il proprio governo straordinariamente diviso. Così la May, il Regno e tutti coloro che sono coinvolti nel divorzio con l’Unione europea – quindi anche noi membri dell’Ue – hanno finito per essere ostaggi della “politica della vanità”, come la chiama Stephens, superiore all’interesse nazionale e naturalmente al buon senso.

 
La decisione di Trump di dichiarare lo stato d’emergenza fa parte allo stesso modo di questa dittatura della vanità. Alcuni senatori democratici hanno subito introdotto un provvedimento per evitare che il presidente prenda i fondi necessari alla costruzione del muro da quelli stanziati per gli aiuti in caso di disastri naturali, mentre i deputati democratici hanno in programma di far passare una risoluzione che di fatto rende nulla la dichiarazione di emergenza. E’ pronto anche lo scontro in tribunale da parte di molte organizzazioni liberal e da alcuni stati (la prima è la California) che contano sul fatto sottolineato anche da Trump che i giudici blocchino quello che loro chiamano uno “scandaloso abuso di potere” da parte di un presidente “sempre più instabile e autocratico”.

 

La speaker della Camera, Nancy Pelosi, ha detto che se proprio bisogna parlare di emergenza allora che si parli di quella delle armi – giovedì era l’anniversario della sparatoria nel liceo di Parkland, in Florida: “Questa sì che è un’emergenza nazionale – ha detto la Pelosi – perché non dichiara lo stato d’emergenza per questo, signor presidente?”. Molti repubblicani hanno detto che la scelta di Trump è “una cattiva idea” e che non c’è alcuna emergenza. Ma la politica della vanità funziona così: vai fino in fondo senza mai ammettere iperboli e sconfitte, dici che i tuoi oppositori sono traditori della volontà popolare (nemici del popolo) e poi trovi qualcuno cui dare la colpa, un tribunale, Bruxelles, un giornalista, una manina, va bene tutto: la vanità non si muove mai senza il vittimismo.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi