Caro Finkielkraut, bisogna saper scegliere il nemico maggiore
Il filosofo star della scorrettezza politica e ideologica, protagonista di tante battaglie giuste, ha sbagliato idea e stile, elogiando i gilet gialli
Se un gruppo di persone sensate e passabilmente leali con le idee e con la vita ha abbracciato un combattimento, poi deve stare attento a non trasformarlo in un’ossessione. Se hai intrapreso un’arte, che implica un tanto di originalità e di possesso mentale del significato, poi devi stare attento che non diventi una banale maniera. Di queste sentenze sono convinto anche quando si parli di islam, di immigrazione, di jihadismo, di scristianizzazione laicista della cultura e del mondo, di costumi e aborto, di criteri di vita eccetera.
Mi piace e mi è sempre piaciuto Alain Finkielkraut, saggista e accademico francese di cui ci siamo qui spesso occupati senza risparmio di encomio sentito, e con il quale abbiamo collaborato ai tempi lontani e creativi dell’Israel Day e ogni qualvolta fu necessario affrontare, cosa che facemmo con qualche anticipo e forte volontarismo, il tema ributtante dell’antisionismo e dell’antisemitismo combinati insieme nel politicamente corretto, o delle debolezze e remissività nel contrasto al terrorismo di matrice islamica. Però ogni tanto, come ho detto su Twitter, le sue attuali inquietudini a ripetizione mi rompono le palle. L’ultimo caso è sotto gli occhi di tutti.
Finkie, che non è nuovo a passeggiate spericolate e un po’ esibizioniste dalle parti dei suoi incarogniti avversari, si è ritrovato a tu per tu per le vie di Parigi con un branco di gilet gialli in foia, i burini della jacquerie violenta e farlocca in nome della giustizia sociale e purtroppo di molto altro, gente che fa il saluto romano spesso e volentieri e che ha l’appoggio di estremisti di sinistra da operetta e di fascistelli da french can-can, folle fanatizzate le quali talvolta se le danno tra di loro in gilet catarifrangente e non si sa come riconoscere gli uni dagli altri. Era già successo, identiche modalità (sporco ebreo eccetera) in Place de la République durante una delle notti debout, le notti in piedi, manifestazioni praticate da movimentisti del pol. corr. dementi e radicalizzati. Stavolta c’era un problema in più, in quel teatro di aggressiva ossessione e di inciprignita cattiveria a sfondo intollerante, razzista e antisemita.
Finkie all’inizio del fenomeno aveva parlato bene dei gilet gialli, e mentre ad alcuni di noi non sfuggiva la loro carica antirepubblicana e antidemocratica, con quel programma di blocco stradale via Facebook e quegli anticipi di violenza che erano chiari anche prima della saga dell’Arco di Trionfo, Finkie li applaudì. Si comportò, per dirla con un mio caro amico signore dell’icasmo e dell’ironia, come il Galli della Loggia francese, il tipo di intellettuale che per scostarsi dall’accusa di essere tra gli happy few, tra le élite della mondializzazione, per mantenere il contatto con la populace, prima vota grillino e poi si pente, anzi si penticchia. Così il filosofo star della scorrettezza politica e ideologica, e protagonista di tante battaglie giuste, ha finito per ritrovarsi a fiancheggiare per un momento il movimento della quenelle e di Dieudonné, il comico che ce l’ha su con gli ebrei e li sbertuccia a teatro. Quando è stato aggredito e minacciato dalla masnada, per tirarsi d’impaccio, ha riproposto in forma manierata la sua intoccabile identità ideologica gallidellaloggiana dicendo che era un attacco salafista, altro che gilet gialli. E giù insulti sul Figaro contro le città-mondo dei bobo e lusinghe alla France periurbaine o periferica declassata dal liberalismo economico e in “sacrosanta” rivolta contro il potere, che oltre tutto consente l’immigrazione islamica e bolla di razzismo chi la combatte. Ecco, così come Galli della Loggia avrebbe dovuto fare come Vauro (ho detto un sacco di bestialità sui grillini, e me ne scuso), altrettanto avrebbe dovuto fare per coerenza con lo stile politicamente scorretto il nostro Finkie, che invece, per meglio civettare con la brodaglia in cui galleggiano antisemitismo, antisionismo e intolleranza violenta, ha spostato tutto sull’islamofascismo dei suoi assalitori in kefiah e gilet.
È un caso di manierismo ossessivo, di trasformazione di una benedetta avversione ai preziosismi ideologici umanitari e multiculti in fiancheggiamento delle stolte e indecenti campagne del più aggressivo sovranismo, nazionalismo, populismo e, come sempre succede, razzismo antisemita. Meglio il vecchio Soros, che risponde a tono e non frigna. Ha tanti torti pol. corr., quell’uomo, quante sono le scorrette e apprezzabili ragioni di Finkielkraut, ma viene un momento in cui torti e ragioni sono perfino meno importanti dello stile. La fissazione è peggio della malattia. Le frontiere vanno controllate, i flussi migratori filtrati, le culture nazionali e la lingua difese, così come va denunciata la sordità morale dell’occidente di fronte alla scristianizzazione anche violenta del mondo moderno, e ogni buon conservatorismo democratico liberale e universalista ha diritto di parola e di presenza pubblica, ma che non diventino ossessioni, fino a coincidere con le mene e le parole d’ordine dei gilet gialli o dei “prima gli italiani” e “America First” di turno. Le radici dell’intolleranza e dello strumentalismo politico di basso conio stanno principalmente lì, non tra i bobo e le gauche che, per aver essi detto cose sensate, hanno dato ai Finkielkraut del neoréactionnaire e hanno inscenato il solito ipocrita balletto della delegittimazione. Sarà che fui leninista, ma credo che ci si debba sempre scegliere il “nemico principale”. Con passo o cadenza realistica, non ossessionale.