Mercoledì sera alla Nike hanno visto il loro personale film dell'orrore
Il cedimento imperdonabile di una scarpa antitrumpiana
New York. C’è da immaginarseli i dirigenti della Nike mentre guardano in tv il loro personale film dell’orrore. Primi trenta secondi di una partita di basket universitario tra Duke e Università del North Carolina, partitissima come dicono quelli del giornalismo sportivo, in prima fila fra gli spettatori ci sono il regista Spike Lee e l’ex presidente Barack Obama, il giocatore più bravo nei centotrenta anni di storia della Duke (secondo i fan, secondo il sito di analisi statistiche FiveThirtyEight: almeno degli ultimi dieci anni) si chiama Zion Williamson e cade da solo per terra durante un cambio di direzione. Obama si alza in piedi, punta il dito in un gesto che le televisioni hanno replicato soltanto qualche migliaio di volte: his shoe broke! Gli si è rotta la scarpa! La Nike di Williamson si è aperta come una buccia di banana dalla punta al tacco, il piede è uscito fuori, lui è stato portato fuori dal campo con un ginocchio dolorante e dovrà stare fermo per un po’, non si sa ancora per quanto. Williamson in estate diventerà professionista e passerà alla Nba, ha molti fan, ci si aspetta che abbia il contratto più alto fra i nuovi arrivati.
Fosse successo almeno nei minuti finali della partita, si sarebbe potuta addurre qualche scusa e parlare degli sforzi epici di Williamson in grado persino di distruggere un paio di scarpe. Ma così il verdetto è stato chiaro. Le bellissime Nike bianche del giocatore non hanno retto mezzo minuto. Ed essendo una partita universitaria la Nike non ha un contratto di sponsorizzazione con il giocatore ma soltanto con la squadra, a cui fornisce le scarpe in blocco, quindi non è stata nemmeno una scelta di Williamson finire così a terra con una faccia tra il perplesso e l’addolorato. La Duke senza il suo giocatore migliore e più famoso ha perso. Conseguenze immediate. Se vendi scarpe e le fai calzare ai campioni durante partite cruciali e però si disintegrano in meno di mezzo minuto stai violando tutte le regole del marketing in un colpo solo. Steve Vaccaro, che è l’uomo che fece firmare a Michael Jordan il contratto di sponsorizzazione con la Nike e poi lavorò anche per Adidas e Reebok, durante una pausa non ha minimizzato la portata del disastro: “Le immagini hanno già fatto il giro del mondo mentre stiamo ancora guardando la partita. Ce le faranno vedere fino alla nostra morte”.
La mattina dopo la Nike ha perso l’un per cento in Borsa, poteva andare peggio ma è comunque più di un miliardo di dollari. Su internet è cominciato il sarcasmo, la Puma ha scritto in un tweet che con le loro scarpe non sarebbe mai successo – poi ha cancellato, forse era uno schiaffo troppo facile – altri hanno scritto che qualche bambino indonesiano stasera andrà a letto senza cena, altri ancora hanno tirato fuori la storia che rende antipatica la Nike a molti americani: la campagna pubblicitaria con Colin Kaepernick. Lui è il giocatore di football senza contratto da marzo 2017 perché al momento dell’inno nazionale si inginocchia in segno di protesta per la brutalità della polizia contro i neri. La Nike ha deciso di ingaggiarlo per girare uno spot progressista che strizza l’occhio a tutta la resistenza anti Trump, il che è una scelta legittima per un’azienda – visto che a novembre la partecipazione degli elettori al voto di metà mandato contro il presidente è stata eccezionale. Ma così Nike è finita nel calderone confuso dove stanno tutte le cose antipatiche al presidente e ai suoi fan molto accesi, assieme allo show televisivo Saturday Night Live, ad Amazon e alla Nato. “Nike, in un modo o nell’altro ti fa finire in ginocchio”, è la battuta che circola oggi. Il capo della campagna elettorale di Trump Brad Parscale ha scritto su Twitter che tutto questo non sarebbe successo se Nike facesse fare le scarpe a lavoratori americani, invece che usare fabbriche all’estero. La caduta della Nike in diretta tv è uno di traumi collettivi che saranno usati in qualche modo nella conversazione politica.
Il campione, i primi minuti di gara, la partita molto attesa, l’ex presidente che punta il dito. Sono tutti fattori che hanno fatto finire una scarpa Nike tra le notizie. Eppure non è nemmeno un fatto così raro: altri tre o quattro giocatori americani di basket sono finiti in panchina con una scarpa a pezzi durante partite importanti e nel 2015 il maratoneta Eliud Kipchoge riuscì a vincere la maratona di Berlino anche se le solette interne delle sue Nike si erano staccate – e restarono staccate per la maggior parte del percorso. E naturalmente queste cose oggi sono elencate con dovizia di particolari dai giornalisti sportivi, con sgomento della Nike, i cui dirigenti ieri mattina hanno fatto una riunione d’emergenza per decidere come rimediare.
L'editoriale del direttore