Al vertice europeo-arabo, la realpolitik di Juncker: “Parlassi solo con democratici, la settimana finirebbe al martedì”
Nel summit di Sharm el Sheikh, i leader europei incontrano i dittatori del medioriente come se nulla fosse. Si era già poco schizzinosi e puntigliosi prima, figurarsi adesso
Milano. Mr Juncker, non si sente male a incontrare e stringere la mano a così tanti dittatori? “Sì, ma se parlassi soltanto con leader di comprovata fede democratica, le mie settimane finirebbero di martedì”. Il presidente uscente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, ha inaugurato così il primo vertice europeo-arabo che si è aperto domenica a Sharm el Sheikh, in Egitto, e si è concluso ieri (con il telefono di Juncker che è squillato, come già accaduto in passato, durante la conferenza stampa: “Il solito sospetto: mia moglie”, ha spiegato con un sorriso).
A dir la verità, pareva di stare a un vertice europeo, perché non si è persa l’occasione di discutere di Brexit e di organizzare bilaterali su questioni che interessano gli europei, formali e non, come dimostra la partita a biliardo tra il presidente del Consiglio italiano, Giuseppe Conte, e la premier britannica Theresa May. Ma l’obiettivo di questo summit “storico”, come si sono affrettati a definirlo gli organizzatori egiziani (è soltanto il primo), era quello di creare un dialogo tra il continente europeo e i paesi arabi, per difendere il cosiddetto interesse europeo nella regione, che è rimasto schiacciato da interessi molto meglio difesi – quelli russi, quelli cinesi – e dal disinteresse degli Stati Uniti.
Il comunicato finale, firmato dai paesi della Lega araba e dell’Ue, parla di sforzo collettivo per garantire “sicurezza e stabilità” in Siria, Yemen e Libia, attraverso processi governati dalle Nazioni Unite (massima fiducia all’Onu, naturalmente) e di fatto senza alcun seguito presso gli interlocutori presenti al summit – al punto 7, c’è l’immancabile riferimento allo status di Gerusalemme e “all’illegalità” degli insediamenti israeliani nel territorio palestinese. Come si era premurato di far sapere il ministero degli Esteri egiziano, non c’è stato un riferimento esplicito alla questione dei diritti umani: al punto 14 si “riafferma l’impegno a combattere l’intolleranza culturale e religiosa e l’estremismo”.
A questo festival della realpolitik, nessuno ha chiesto conto al padrone di casa, il rais egiziano Abdel Fattah al Sisi, del suo tentativo – via riforma costituzionale – di allungarsi il mandato fino al 2034 (scadrebbe nel 2022), così come è stato dato grande spazio al re saudita Salman, nonostante la recente uccisione del giornalista Jamal Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul (per tener su il regno e abbassare eventuali ditini alzati, è in arrivo a Riad il genero di Trump, l’alleatissimo Jared Kushner).
Anzi, re Salman ha trovato modo per ribadire che il male della regione è l’Iran e che la causa palestinese non deve uscire dalle priorità dell’Europa. C’è stato il tempo per parlare di economia e di partnership nuove, perché così, in questo nuovo mondo dello status quo, si garantisce la stabilità, e pazienza per il terrorismo, per i flussi migratori incontrollati, per le violenze e per il nuovo surge dell’antisemitismo. Non ci sarà una eccessiva tolleranza nei confronti di regimi autocrati e di leader brutali?, chiedevano alcuni commentatori. E’ che per arrivare alla fine della settimana, almeno, per citare Juncker, non si può discettare troppo di ideologie e di valori: si era già poco schizzinosi e puntigliosi prima, figurarsi adesso.