Il summit di Hanoi è un messaggio di Trump a Kim Jong-un
Il ricordo della guerra, la voglia di stare bene, il boom economico. Al vertice tra America e Corea del nord il padrone di casa ha qualcosa da mostrare
Hanoi, Vietnam. “I nostri capi vengono in Vietnam per imparare. Ma quando tornano si sono dimenticati la lezione”, dice un giornalista cubano che sta seguendo il summit tra il presidente americano Donald Trump e il leader nordcoreano Kim Jong-un che si apre oggi ad Hanoi. Si riferisce a quello che è divenuto il tema di molti analisti: il modello vietnamita di sviluppo che potrebbe essere esportato in Corea del nord (e Cuba, come spera quel giornalista con molto interesse e pari ironia).
Questo summit, che è il sequel di quello che si è svolto a Singapore nel giugno scorso, dovrebbe segnare un significativo passo avanti sulla via di un reale accordo per la denuclearizzazione della Corea del nord. Alcuni parlano addirittura di un trattato di pace che segnerebbe la fine della Guerra in Corea (per ora conclusa solo dall’armistizio firmato il 27 luglio 1953 a Panmunjom). Di certo è il sogno del presidente Trump che, secondo un ex funzionario delle Nazioni Unite stabilito nel sud-est asiatico, è “ossessionato dal desiderio di ricevere il Nobel per la pace”.
In realtà, complici anche i mille dubbi e segreti che circondando questo summit, dai luoghi degli incontri ai reali temi di dibattito, almeno per ora l’argomento principale è proprio il modello vietnamita. Tanto che, commenta al Foglio un osservatore locale, è divenuto oggetto di una “narrazione corrente”, quasi una trama sostitutiva.
Secondo tale narrazione, dunque, il Vietnam potrebbe rappresentare il modello che permetterebbe alla Corea di uscire dalla sua condizione di sottosviluppo e isolamento. Come ha dichiarato lo stesso presidente Trump, diventerebbe un “rocket”, un missile economico “sotto la guida del capace Kim”, lo stesso che il presidente americano aveva definito un “Rocket Man”, “impegnato in una missione suicida per sé e per il suo regime”.
Il modello vietnamita cui dovrebbe ispirarsi la Corea del nord di Kim Jong-un si chiama Doi Moi, rinnovamento
Il modello vietnamita cui dovrebbe ispirarsi la Corea del nord si chiama Doi Moi, rinnovamento: coniuga una notevole riduzione del controllo statale sulle imprese con il controllo politico da parte del Partito comunista, in una nuova versione della separazione dei poteri. Dichiarato nel 1986, è stato canonizzato il 21 giugno 2005, con l’incontro a Washington tra il premier vietnamita Phan Van Khai e il presidente degli Stati Uniti George W. Bush.
E così il Vietnam ha stabilizzato la crescita (nell’ultimo anno ha toccato il 7 per cento), ha realizzato un efficiente sistema d’infrastrutture, la percentuale dei vietnamiti che vive in povertà è scesa dal 50 per cento dei primi anni Novanta a meno del 20, il pil pro capite è aumentato di cinque volte raggiungendo la quota di 2.500 dollari. Ora, scrive Le Dinh Tinh, dell’Istituto di Politica estera e Studi strategici all’Accademia diplomatica vietnamita, “la storia del paese viene scritta secondo una nuova trama, una strategia d’integrazione internazionale attiva e proattiva”. E’ da qui che dovrebbe partire una risposta “di magnitudine himalayana”, come la definisce Le Dinh Tinh, per portare definitivamente il Vietnam nella contemporaneità.
Il cambiamento, secondo il giornalista e accademico Bill Hayton, autore del saggio “Rising Dragon”, è definito da un passaggio semantico: in vietnamita il termine “com” significa raccolto, ma anche cibo, pasto e addirittura moglie. Oggi, però, sempre più spesso è riferito a commodity: “bene indifferenziato” per cui c’è domanda di mercato indipendentemente da chi lo produce.
Alla vigilia di questo summit sono in molti ad aver evocato il Doi Moi, soprattutto gli americani che sempre più spesso paragonano il Vietnam pre-rinnovamento alla Corea del nord: una nazione isolata, reclusa “eremita”, condannata alla fame e al sottosviluppo. E che sempre più spesso rivendicano la paternità del Doi Moi, quasi fosse stato determinato da un’illuminazione sulla via dello sviluppo. Ma soprattutto appare come una sorta di rivincita. “In un certo senso si potrebbe dire che, alla fine, gli Stati Uniti hanno vinto”, ha commentato Robert Buzzanco, esperto di affari vietnamiti all’Università di Houston. Lo stesso segretario di Stato Mike Pompeo, in un discorso tenuto lo scorso anno ad Hanoi, ha attribuito al Doi Moi il merito di una “inimmaginabile prosperità”, di cui potrebbe godere anche la Corea del nord se seguisse il cammino tracciato dal Vietnam.
“La popolazione non si occupa di politica. L’interesse è per il denaro, per la bella vita”, dice il libraio Hoang
In questa prospettiva anche il viaggio di Kim Jong-un in Vietnam è stato minuziosamente analizzato cercando prove di una sua disponibilità ad aperture economiche: dal passaggio attraverso la provincia di Bac Ninh, sede di una gigantesca fabbrica di telefoni della Samsung (maggior investitore estero nel paese), al suo possibile tour, dopo il summit, nella baia di Halong, destinazione turistica che dovrebbe essere d’esempio per simili siti in Corea del nord. Ammettendo che tali interpretazioni di ogni singolo movimento abbiano davvero un significato, il tutto appare riferito all’interesse personale dello stesso Kim Jong-un e del suo entourage. Allo stesso modo, forzando l’analisi, si potrebbe interpretare la scelta del suo albergo ad Hanoi, il Melia, col fatto che al piano terra è allestito lo showroom della Rolls-Royce, auto molto amata da Kim, che lo scorso ottobre s’è presentato al meeting con Pompeo a bordo di una Rolls-Royce Phantom nera (che si dice importata illegalmente).
Tutti questi paragoni, però, non piacciono ai vietnamiti. Forse anche per un certo snobismo nazionalistico: per quanto storici alleati della Corea del nord, ritengono che il loro modello politico e la loro stessa storia siano profondamente diversi e non replicabili. Pur con un certo rincrescimento, dovuto all’atavico risentimento nei confronti dei cinesi che li hanno dominati per un millennio, riconoscono che il Doi Moi tragga ispirazione dal “socialismo con caratteristiche cinesi” teorizzato da Deng Xiaoping, il “piccolo timoniere”, che condusse la Cinafuori dalle secche della Rivoluzione culturale e ne avviò la trasformazione in potenza industriale.
“In realtà il Doi Moi è una nostra elaborazione”, rivendica una docente di Hanoi che è disposta a riconoscere solo un merito all’eredità culturale cinese, quello verso il confucianesimo. “Ma anche in questo caso è in Vietnam che ne trovi la più forte materializzazione” aggiunge, riferendosi al Tempio della Letteratura di Hanoi. Costruito nel 1070 per volere dell’imperatore Ly Thanh Tong, divenne sede della prima università del Vietnam e tuttora è frequentato da studenti che chiedono a Confucio di guidarli negli esami.
“Il Vietnam rappresenta un modello diverso anche da quello cinese, più articolato, con una leadership collettiva. Il partito è unico ma non monolitico, con spazi interni di dibattito e confronto tra le forze, sia pure in una dinamica di forze diversa da quelle cui siamo abituati”, conferma al Foglio un diplomatico occidentale, secondo il quale tale bilanciamento dei poteri riesce a contenere il dissenso.
Per il professor Hieu, docente di Letteratura ad Hanoi, il paragone con la situazione coreana è quasi offensivo, soprattutto perché rischia di creare similitudini anche tra le storiche divisioni tra nord e sud: sono state causa di guerra in entrambe i paesi ma in Vietnam hanno portato alla vittoria di un’ideale che in Corea è stato invece alienato dall’autocrazia dinastica. Il professore, in realtà, non crede nemmeno si possa parlare di un modello economico vietnamita: “Lo stiamo pagando caro in termini di diseguaglianze, degrado ambientale”. Ma soprattutto è un modello che ha generato il mito del guadagno del denaro.
Il viaggio di Kim in Vietnam è stato analizzato cercando prove di una sua disponibilità ad aperture economiche. La fabbrica Samsung
“La popolazione non si occupa di politica. L’interesse è per il denaro, per la bella vita”, conferma Hoang, che gestisce una libreria alternativa molto frequentata dagli occidentali in cerca delle ultime tracce di un Vietnam rivoluzionario.
Ancora una volta, dunque, il Vietnam diviene una sorta di metafora o paragone che si presta a qualsiasi interpretazione. In questo caso, come ha dichiarato Balazs Szalontai, storico della Korea University, a “Southeast Asia Globe”, “il modello Vietnam che Pompeo sta tanto sostenendo appare soprattutto come una manovra di pubbliche relazioni”.
“Questo summit è un’illusione” avverte il professor Hieu. “Trump non è interessato davvero alle relazioni tra i paesi. Lui non è il simbolo della democrazia. Lui usa tutto ciò per promuovere se stesso”.
Se davvero il summit è un’operazione di marketing, però, il maggior successo l’ha ottenuto tra gli stessi vietnamiti: “Anche i miei vecchi genitori seguono il summit in televisione, sono orgogliosi che accada ad Hanoi, dove vivo io”, dice la professoressa manifestando un confuciano rispetto per gli anziani. “Adesso il summit, l’anno prossimo sarà il Gran Premio di Formula 1 a rendere orgogliosi gli abitanti di Hanoi”, commenta il diplomatico.
“La cosa più positiva del summit è che cambia l’immagine del paese: prima tutti pensavano al Vietnam come a un paese di guerra”
“Credo che se questo evento definisce il Vietnam come un modello significa solo che lo definisce come un modello di pace”, afferma il professor Hieu. “La cosa più positiva del summit è che cambia l’immagine del paese: prima tutti pensavano al Vietnam come a un paese di guerra”.
Un’immagine che è ancora difficile da sradicare, opponendosi alla narrazione creata dalla cinematografia americana, da Apocalypse Now a Rambo, tanto per citare gli estremi. “In effetti la guerra è stata un’immensa pubblicità per il paese”, affermava con un certo cinismo ma altrettanta verità un operatore turistico locale.
Hanoi città di pace è divenuto così ben più di uno slogan: sembra quasi un nuovo programma politico. Peccato che in alcuni osservatori esteri abbia fatto venire in mente un altro paragone: quello con Ginevra, dove nel 1954 si svolse la conferenza che doveva trovare un accordo di pace e una stabilizzazione politica sia in Vietnam sia in Corea. Un paragone, dunque, che difficilmente può considerarsi di buon auspicio, considerando come s’è svolta la storia dopo quella conferenza.
Va ammesso, tuttavia, che questa Hanoi del summit ha un’immagine ginevrina. Elegante, sofisticata, rilassata, ordinata (almeno per gli standard dell’area), con le sue eleganti boutique, le sue banche e gli hotel storici come il Metropole, che secondo alcuni avrebbe preferito non ospitare gli illustri leader per non disturbare i propri clienti, col suo lago Hoan Kiem dove rilassarsi. Come scriveva il poeta e diplomatico Paul Claudel, lo sguardo immerso in “questa acqua che pensa”.
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