Kim vuole una Corea senza Usa
Domani si apre il vertice in Vietnam e qualunque concessione il presidente americano Trump farà al leader nordcoreano sarà una grande vittoria per il regime, ma non per i nordcoreani (che hanno la tv ma non i bagni)
Roma. “E’ molto divertente guardare la gente che per anni ha fallito, senza ottenere niente, dirmi come devo negoziare con la Corea del nord. Ma grazie comunque!”. Poco prima di partire per Hanoi, in Vietnam, dove domani e dopodomani si terrà il secondo summit tra il presidente americano e il leader nordcoreano, Donald Trump usa Twitter per svelare il vero risultato ottenuto dal suo dialogo diretto con Kim Jong-un: la soluzione di un problema che l’America si porta dietro dal 1953. Mediaticamente, almeno, il risultato è ottenuto: l’ultimo test nucleare della Corea del nord risale al 3 settembre del 2017, l’ultimo test missilistico al 28 novembre del 2017. Pyongyang non è più avvertita come una minaccia globale, e basta dare un’occhiata ai titoli dei giornali di poco meno di un paio di anni fa e confrontarli con quelli di oggi. Il merito che si intesta Donald Trump, però, secondo molti analisti è più che altro di facciata, un ottimo maquillage, che nasconde altro: negli ultimi mesi preparatori a questo secondo summit, i colloqui di medio e alto livello tra funzionari americani e quelli nordcoreani hanno portato a pochi risultati. Anche sulla questione della denuclearizzazione – cioè sull’effettivo abbandono delle armi nucleari da parte della Corea del nord, in modo immediato, definitivo e verificabile – ogni ufficiale incaricato dalla Casa Bianca pare avere la sua idea. Intervistato da Jake Tapper sulla Cnn, ieri il segretario di stato Mike Pompeo ha praticamente smentito il presidente. Quando Tapper gli ha chiesto se l’America continua a considerare la Corea del nord una minaccia nucleare, Pompeo ha risposto “sì”. “Ma il presidente ha detto il contrario”, ha incalzato Tapper. “Non è esattamente quello che ha detto…”, ha replicato Pompeo. E allora Tapper gli ha letto il tweet del presidente Trump, che otto mesi fa, di ritorno da Singapore e dal primo incontro sin dalla fine della guerra di Corea tra un leader nordcoreano e un presidente in carica, aveva scritto: “Appena atterrato – è stato un lungo viaggio, ma tutti possono ora sentirsi più sicuri rispetto al giorno in cui ho assunto l’incarico. La Corea del nord non è più una minaccia nucleare. L’incontro con Kim Jong-un è stata un’esperienza interessante e molto positiva. La Corea del nord ha un grande potenziale per il futuro!”. A quel punto Pompeo ha dovuto interpretare: “Quel che voleva dire è che gli sforzi fatti a Singapore hanno sostanzialmente ridotto il pericolo per gli americani” di una nuova guerra, o di un attacco da parte della Corea del nord. Ma è davvero così?
L’America arriva al secondo tavolo di trattative al livello più alto – oltre al bilaterale tra capi di stato non c’è nient’altro – non solo confusa sulle richieste da fare a Pyongyang ma anche molto cauta. Ogni volta che i funzionari americani hanno chiesto la lista delle testate e dei siti nucleari alla Corea del nord – una cosa per la quale con l’Iran abbiamo trattato per anni – c’è stato un passo indietro da parte di Kim. D’altra parte, tutto quello che la Casa Bianca aveva domandato alla Corea del nord al precedente summit di Singapore è stato eseguito: è stato smantellato il sito di test nucleari di Punggye-ri; è iniziato lo smantellamento della base di Tongchang-ri che serve al collaudo dei motori per i razzi a combustibile liquido, i resti dei soldati americani caduti durante la guerra di Corea sono stati rimpatriati. E’ il turno di Pyongyang iniziare a fare richieste.
Quel che serve alla Corea del nord è abbastanza facile da intuire: la liberazione dalle sanzioni economiche che strozzano l’economia, aiuti per lo sviluppo del paese, la fine della minaccia “esistenziale” costante dovuta dalla presenza militare americana nella penisola. E’ per questo che uno dei risultati più sorprendenti del summit di Hanoi potrebbe essere la trasformazione dell’armistizio del 1953 in un trattato di pace. Secondo la Corea del sud “c’è una discreta possibilità” che America e Corea del nord si accordino su questo, ha detto il portavoce della presidenza di Seul Kim Eui-kyeom. Una dichiarazione di pace, del resto, è il risultato migliore possibile sia per Trump sia per Kim Jong-un, spiega al Foglio Gianluca Spezza, research fellow al Centro di ricerche strategiche sulla Corea del nord dell’università Kimep di Almaty, in Kazakistan: “Il risultato migliore è ciò che stanno già per avere. Una dichiarazione di pace che non è supportata da nessun piano strategico a lungo termine per la ricostruzione del sistema socioeconomico nordcoreano. Vuol dire una soluzione a basso costo ma con delle conseguenze molto costose”. Ieri per il Lowy Institute Spezza ha scritto un articolo nel quale si spiega, con esempi concreti, la contraddizione tra sviluppo e modernizzazione nel caso nordcoreano: “L’Unicef nel 2017 ha rilevato che il 93 per cento delle famiglie con latrine a fossa o fosse biologiche utilizza ancora i terreni agricoli, l’acqua, le fosse biologiche, i terreni o altre aree non sicure per lo smaltimento degli escrementi”, scrivono Spezza e Nazanin Zadeh-Cummings, “lo stesso studio rivela un paradosso: le famiglie in possesso di una tv sono il 98 per cento, il 94 per cento ha la radio, il 74 per cento il telefono, quasi il 18 per cento un computer e oltre l’80 per cento delel persone ha un telefono cellulare”. L’illusione della modernizzazione spesso non va di pari passo con lo sviluppo, che richiede tempo, e investimenti. Un paese senza un adguato sistema fognario difficilmente può considerarsi sviluppato, come invece ha più volte annunciato Trump su Twitter, parlando di una Corea del nord dal futuro radioso grazie a una “straordinaria prosperità economica”.
Una dichiarazione di pace, però, nel frattempo “permette a Trump di dire – anzi, in realtà lo ha già twittato – che al contrario di tutti gli altri presidenti ha risolto l’irrisolvibile dopo 70 anni di fallimenti in Asia. Ma permetterebbe anche a Kim Jong-un di dire ai nordcoreani: ‘Bene, la promessa fatta da mio nonno, e cioè fuori gli americani dalla penisola coreana, è stata mantenuta. Gli enormi sacrifici che avete fatto non sono stati invano’”. E però, raggiunto lo scopo, tutto ciò che viene dopo sarebbe secondario: “La famiglia Kim in termini di lascito per il futuro di Pyongyang diventerebbe immortale. L’economia invece può attendere”. Ma una Corea del nord, anche se disarmata, “senza un piano per il futuro e con un sistema socioeconomico a pezzi – il suo pil è identico a quello del 1979 – è una polveriera”, dice Spezza. “Chi verrà dopo dovrà tenere il coperchio saldo su 25 milioni di nordcoreani che avranno davanti anni di sacrifici disumani e che si sveglieranno considerati come una Corea del sud di serie Z, data la distanza economica. E’ possibile che a quel punto, vessata, la gente chieda la riunificazione, un processo che il Sud però non può fare e manco si può permettere di pagare”. Ma a quel punto la narrazione sarà già cambiata: “La colpa non sarà più dell’America, che ha firmato la pace e quindi è fuori dai giochi, ma dei vostri fratelli al Sud che non vi vogliono, perché siete quaranta volte più poveri. E’ questa la vera bomba che potrebbe portare al collasso”. C’è anche un altro fattore. Con la Corea del nord – e la legittimazione consegnata dalla Casa Bianca a un paese che fino a poco tempo fa era nella lista degli stati sponsor del terrorismo – si apre un precedente pericoloso: stiamo dialogando con un paese che ha raggiunto e dichiarato lo status di potenza nucleare. Siamo oltre la legittimazione? “Sì, soprattutto se come Trump prima inviti il disertore nordcoreano con le stampelle al discorso sullo stato dell’Unione, gli prometti giustizia – è successo durante il discorso del gennaio 2018 – e poi hai un dialogo quasi amichevole con Kim Jong-un, e dici che vuoi costruire i tuoi alberghi sulle spiagge di Wonsan”, dice Spezza.
In questa partita a scacchi il solito ruolo di primo piano ce l’ha la Cina, che si comporta come il marchingegno invisibile che serve a truccare le partite. Non si vede, ma c’è. E infatti se Kim Jong-un ha deciso di viaggiare verso il Vietnam in treno, e non in aereo: certo, per ricordare sempre i lunghi viaggi in treno compiuti dai suoi predecessori, ma anche perché la sicurezza del suo aereo personale non è sufficiente, ma la Cina, che per il precedente viaggio a Singapore aveva messo a disposizione un velivolo della Air China, questa volta non si è manifestata. Non ci saranno fotografie con l’immagine di Kim e la bandiera cinese alle spalle. Del resto il Vietnam è stato scelto come sede del secondo vertice anche perché, secondo quanto dichiarato spesso dai funzionari della Casa Bianca, potrebbe essere il modello economico al quale aspirare per la Corea del nord. Un modello perfettamente diviso tra influenza americana e influenza cinese, pronto per essere usato strategicamente da entrambe le parti.
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