Porte in faccia a Hanoi
Trump dice che “certe volte devi andare via”, ma per recuperare i danni di questo summit serviranno anni
Roma. “Sometimes you have to walk”, ha detto il presidente americano Donald Trump alla stampa, dopo che il programma della giornata di negoziati era stato cancellato per intero nel giro di pochi minuti. Certe volte devi andare via, come si fa con i grandi amori: da un momento all’altro uno dei due può far saltare il tavolo, chiedere troppo, dire una sola parola sbagliata e allora l’altro deve decidere se continuare a negoziare oppure sbattergli la porta in faccia. Del leader nordcoreano Kim Jong-un, in questa storia, sappiamo l’idea che voleva dare ai suoi cittadini di questo secondo appuntamento importantissimo: le immagini pubblicate dall’agenzia ufficiale Kcna mostravano Kim sempre sorridente, sicuro di sé, per niente cedevole, conversare divertito con il presidente americano. E invece Trump è arrivato alla conferenza stampa di chiusura anticipata del vertice di Hanoi scuro in volto. Ha iniziato citando la crisi tra India e Pakistan, il Venezuela (parliamo delle cose più importanti, prima) e poi ha detto che sì, effettivamente “sono stati due giorni interessanti, produttivi”, ma che poi alla fine ha deciso di andarsene. E’ stato il segretario di stato Mike Pompeo a spiegare meglio: “Abbiamo fatto dei veri progressi nelle ultime 24, 36 ore. Sfortunatamente, non siamo arrivati fino in fondo”. La versione di Trump è che Kim domandasse la completa eliminazione delle sanzioni economiche, ma voleva dare troppo poco nel processo di verifica della denuclearizzazione.
Nella serata di oggi il ministro degli Esteri nordcoreano ha detto in una conferenza stampa a Hanoi che “la Corea del nord non ha mai chiesto la completa eliminazione, piuttosto il parziale alleggerimento delle sanzioni”. Quando ti metti al tavolo con un dittatore – un tavolo imbandito, con leccornie di ogni tipo e promesse di grandi exploit economici, e tutt’intorno la bandiere a stelle e strisce, il simbolo della libertà, affiancata a quella di un regime – lo legittimi, gli dai la possibilità di trattare alla pari. E dunque non puoi stupirti se diventa lui, all’improvviso, quello che detta le condizioni. Così ha fatto Trump con Kim Jong-un: il primo summit di Singapore, quello del giugno scorso, era un azzardo, una scommessa fatta per aprire una fase completamente inedita dopo settant’anni di stallo nei negoziati. La dichiarazione a cui portò quel vertice era senza sostanza, inefficace, inconsistente. Il summit di Hanoi doveva essere quello operativo, e fino a due ore prima dall’annullamento delle riunioni qualche corrispondente dalla sala stampa diceva che Washington era pronta a firmare qualunque cosa, perfino rinunciando al documento più importante: l’inventario delle testate nucleari nordcoreane. E’ per questo che un negoziato è lento, e frustrante: perché i dettagli vanno gestiti prima della stretta di mano. Adesso il danno d’immagine, la ferita diplomatica è solo per l’America. Kim Jong-un potrà continuare a fare i suoi affari con la Cina, contando sul suo arsenale per la sua stessa sopravvivenza. Quando oggi qualcuno ha azzardato l’esempio di Ronald Reagan e del vertice islandese con Michail Gorbaciov, e Trump ha gongolato. Ma oggi a ricevere la porta in faccia è stato lui, non Kim.
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