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Una primavera algerina

Rolla Scolari

Protestano tutti, dagli studenti ai professionisti, ad Algeri e in altre città, da giorni e in modo pacifico. Ce l’hanno con l’azzardo di chi vuole il presidente Bouteflika per un quinto mandato. Ma è il patto sociale che non regge più

L’immagine del segnale stradale di divieto, tondo e con il numero cinque sbarrato da una riga rossa, è diventata il simbolo della protesta. Cinque come il numero di mandati che collezionerebbe l’anziano presidente algerino, Abdelaziz Bouteflika, se vincesse ancora una volta le elezioni in programma il 18 aprile. Si manifesta da oltre una settimana, pacificamente, un po’ a sorpresa, senza scontri nonostante il vasto dispiegamento di forze dell’ordine. Benché il paese sia stato tra i primi, alla vigilia delle primavere arabe del 2011, a scendere in strada, il dissenso allora non si era radicato. Gli stessi algerini che oggi commentano sui social media la partecipazione ai cortei di queste ore sembrano stupiti dall’ampiezza delle proteste: venerdì in molte città dopo la preghiera sono scese in strada a manifestare migliaia di persone. Lunedì hanno protestato giudici e avvocati, martedì migliaia di studenti hanno scandito slogan nelle università, e le manifestazioni si sono propagate dai campus alle piazze. I giornalisti hanno indetto per oggi una protesta, i liceali hanno manifestato ieri, e domani, ancora una volta dopo la preghiera islamica, si attendono cortei ad Algeri e altrove. Non c’è (ancora) un partito a organizzare la protesta, cui sembrano partecipare in tempi separati diverse categorie e associazioni nazionali. “Il dissenso in questi giorni è caratterizzato da una mobilitazione urbana, che tocca universitari, avvocati, giornalisti, professionisti, e non le campagne, tradizionali roccaforti islamiste”, ci spiega Francesco Strazzari, professore associato di Relazioni internazionali alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.

 

Da Algeri a Orano, passando dal profondo sud di Tamanrasset e dal trascurato est di Tizi-Ouzou, la piazza ha uniformato i propri slogan: “Makache el Khamssa, ya Bouteflika”, no a un quinto (mandato), Bouteflika; “Questa è una Repubblica, non una monarchia”; “Il popolo non vuole né Bouteflika né Said” (il fratello più giovane del vecchio leader, spesso indicato come possibile successore).

 

Il presidente Abdelaziz Bouteflika, veterano dell’indipendenza, ha 81 anni, ed è malato da tempo. Da anni ormai appare sempre di meno in pubblico, e quando accade le immagini parlano da sole: l’ultima volta, è stato ripreso dalle telecamere a un evento ufficiale ad Algeri a novembre, su una sedia a rotelle, molto provato. “Un fantasma”, “una fotografia”: così molti manifestanti si rivolgono a un presidente al potere dal 1999. “Ci sono voluti vent’anni di presidenza Bouteflika affinché gli algerini rompessero la barriera della paura, e ritornassero in strada – ha scritto sorpreso per l’estensione della protesta il poeta algerino Salah Badis – Alle persone, qui, ad Algeri e nelle altre città, occorre tempo per guarire dal passato, e smascherare le illusioni, e la prima tra loro: la foto di un presidente assente”.

 

La protesta e i segnali di un malessere sociale in aumento non sono iniziati con la manifestazione di venerdì. Il malcontento in Algeria monta da tempo. In molti però sono ancora spaventati “dalla storia recente, dalle violenze degli anni Novanta, da quanto avvenuto dopo le rivolte arabe in Libia e in Siria, e dal fatto che nel paese c’è un effettivo stato di polizia”, ci spiega Issandr el Amrani, analista esperto di Nord Africa. “Per molti, l’associazione tra aperture sociali e politiche della fine degli anni Ottanta (con l’introduzione del multipartitismo alle elezioni del 1991 che portarono alla vittoria islamista) e instabilità è diretta, anche se molto è cambiato negli ultimi anni”. In Algeria la guerra civile è durata dal 1991 al 2002.

 

La spiegazione di quello che il giovane poeta Badis ha definito “rottura della barriera della paura” sta nei numeri e nella demografia. Avvolti nelle bandiere bianche, rosse e verdi dell’Algeria, a scandire in strada slogan in arabo e francese, a chiedere la fine dell’era Bouteflika sono in questi giorni soprattutto i giovani. In un paese dove il 75 per cento della popolazione è sotto i 25 anni, la nuova generazione ricorda poco o niente degli anni bui del terrorismo. Sa però di aver conosciuto in vent’anni un unico presidente, mentre soffre per un’economia in crisi: a settembre 2018, il tasso di disoccupazione in Algeria era all’11,7 per cento, quello giovanile al 29,1. Se per decenni il regime ha comperato la pace sociale attraverso una sapiente ridistribuzione delle rendite degli idrocarburi – il governo dipende per il 60 per cento dagli introiti del settore energetico – un importante boom demografico, l’oscillazione del prezzo del greggio, il calo delle riserve di valuta estera hanno cambiato gli equilibri, senza che la leadership abbia intanto trovato la via di una necessaria diversificazione economica. Tutto questo significa “un mutamento del patto sociale – ci spiega Arturo Varvelli, ricercatore dell’Ispi – Se muta qualcosa o la rendita si assottiglia, il governo ha meno possibilità di comperare il consenso, e quindi ha un problema. A questo va aggiunto un elemento di novità: le manifestazioni. Alcuni strati della popolazione hanno ben presente come l’operazione di camouflage da parte del regime non sia più tollerabile e chiedono qualcosa di più di stabilità e rinnovamento, qualcosa che possa essere visibile: come la sostituzione del presidente”.

 

La questione della successione a Bouteflika è aperta da anni in Algeria, eppure il sistema – dallo storico partito al potere, il Fronte di Liberazione Nazionale, alle opposizioni – sembra aver trovato un compromesso nel non trovare un compromesso, garantendo così per molti il mantenimento di interessi individuali. Con le piazze che non accennano a svuotarsi, ora si attende una mossa del regime, o le prime crepe al suo interno.

 

La campagna elettorale di Bouteflika dovrebbe depositare la candidatura del presidente il 3 marzo, a meno che le pressioni dei manifestanti obblighino il palazzo a trovare un accordo – mai trovato in vent’anni – su una valida alternativa. Per ora, le forze dell’ordine hanno reagito soltanto limitatamente alle manifestazioni, con l’utilizzo di gas lacrimogeni per disperdere la folla. Da parte del governo, il primo ministro Ahmed Ouyahia ha dichiarato che il popolo si esprimerà sulla questione di un quinto mandato alle urne (nel 2014 Bouteflika ha vinto con oltre l’81 per cento delle preferenze, tra le accuse di frode elettorale). Soltanto dopo le proteste degli studenti, martedì, parte della stampa algerina in arabo ha dato la notizia di manifestazioni, sebbene ancora in queste ore il sito dell’agenzia di stampa ufficiale apra con una notizia sulla produzione di energia elettrica, senza menzionare assolutamente le piazze. Sul sito del giornale francofono l’Expression, il capo di stato maggiore, Ahmed Gaid Salah, raccomandava ieri di astenersi dall’“avventurismo”, mentre l’editoriale principale chiedeva di dare la parola ai 24 milioni di elettori, senza affidarsi a una rumorosa minoranza di “500 mila, 600 mila” manifestanti. Liberté, giornale francofono, accusava invece il regime di utilizzare già lo spettro della “paura” e delle “ingerenze straniere” contro il dissenso.

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