Il clan Bolsonaro ha un problema con i social
L’uscita di Lula, il caso Moro. I figli del presidente molto attivi su internet innervosiscono i ministri di papà
Roma. L’impossibilità di tenere sotto controllo la frenetica attività di comunicazione politica nei social network dei primi tre figli maschi del presidente brasiliano Jair Bolsonaro comincia a innervosire i suoi ministri. Soprattutto gli otto militari – sette ministri più il vicepresidente – che l’ex colonnello di polizia eletto con il 53 per cento dei voti s’è portato al governo. Temono possa trasformarsi in un boomerang il parossismo, mostratosi utilissimo in campagna elettorale, con cui i tre continuano a utilizzare i social per commentare gli avvenimenti pubblici ed esibire la propria vita privata.
Mettere un filtro alla loro onnipresenza in rete non è impresa semplice anche perché Bolsonaro e questi tre figli (ne ha altri due, un ventenne e una bambina di otto) sono un quartetto con logiche da clan. Difficile zittirne uno senza che l’insieme ne risenta. S’è visto quando il primogenito Flavio, 37 anni, senatore, alla vigilia del debutto del padre a Davos, è stato investito da uno scandalo per accuse di corruzione e riciclaggio. (Per inciso c’è da ricordare che il presidente considerato outsider nonostante abbia sette legislature da deputato alle spalle, ha tre figli in politica: il primogenito Flavio al Senato; Eduardo, 36 anni, deputato; e Carlos, 34 anni, consigliere a Rio. La seconda moglie, Ana Cristina, ha tentato l’elezione alla Camera con il cognome Bolsonaro, ma non è stata eletta).
S’è visto questo fine settimana quando il secondogenito Eduardo si è tuffato nella marea di violentissimi commenti sul permesso di uscire due ore dal carcere concesso all’ex presidente Lula, condannato per riciclaggio e corruzione, per partecipare al funerale del nipote di sette anni morto di meningite. Lontano dalla possibilità di tacere, di esprimere mezza parola di solidarietà umana o di vago rispetto per un avversario politico incarcerato, Eduardo ha scritto: “Lula deve stare in carcere comune, come un detenuto comune” aizzando un rincorrersi di interventi, tra i quali quelli che definiscono la morte del bambino “un castigo di Dio a Lula” non sono i più pesanti. Ciò ha scatenato reazioni anche tra i nemici del partito dei lavoratori (Pt) con un minimo di senso della misura e ora sono tutti lì che discutono on line se l’incapacità di provare empatia per il dolore altrui sia o no propria solo degli psicopatici.
Il fatto drammatico è che nel Brasile iperconnesso, in cui gran parte della popolazione si informa solo via social network, le notizie vere e false che accompagnano le inchieste sulla corruzione e il finanziamento illecito ai partiti – a tutti i partiti, non solo al Pt – finiscono per ribollire tutte insieme in una poltiglia indecifrabile dagli effetti tossici. L’odio verso il Pt, nel mezzo di una crisi economica che ha inviperito l’aspirante nuova classe media illusa nell’era lulista del boom (2003-2010) dalla possibilità di consumare di più e meglio benché a rate, s’è nutrito di questo clima ed è cresciuto andando ben oltre le responsabilità politiche e personali dei suoi dirigenti. Si è diffuso al punto dal far digerire senza il minimo sussulto – al Brasile, ma anche al resto del mondo – il fatto clamoroso che il giudice Sergio Moro, dopo aver mandato in galera Lula, candidato favorito alle presidenziali secondo tutti i sondaggi, abbia accettato la nomina a ministro della Giustizia avuta da un presidente che mai sarebbe diventato tale senza quell’arresto. E’ lo stato di diritto in Brasile, tanto quanto Lula, a essere stato danneggiato dal caso Moro, che a guardarlo bene dovrebbe porre più interrogativi del caso Lula. Invece la maggioranza dei brasiliani, anche colti, è convinta che aver accettato l’incarico a superministro della Giustizia da parte del giudice Moro sia legittimo, secondo moltissimi sacrosanto.
Il fatto che Moro sia oggi ministro di Bolsonaro, che (fonte il vicepresidente Hamilton Mourão) gli sia stato offerto l’incarico molto tempo fa, il fatto che da giudice abbia reso pubbliche una settimana prima delle elezioni dichiarazioni di testimoni che accusavano Lula, che sia stato da Bolsonaro già indicato come futuro giudice del Tribunale supremo, che infine abbia firmato un discutibilissimo ordine d’arresto, non pare sia sufficiente a far domandare se l’ex presidente del Brasile abbia avuto un giudice imparziale. Eppure lo stesso giudice Moro l’anno scorso aveva detto alla rivista Veja: “Non sarebbe appropriato da parte mia rendermi disponibile a un incarico politico perché questo potrebbe, diciamo così, mettere in dubbio l’integrità del lavoro fatto da me fino ad oggi”.
L'editoriale dell'elefantino