Così il People's Vote prova a ribaltare la Brexit ai Comuni inglesi
Alcuni esponenti del movimento anti Brexit ci spiegano la strategia per convocare un secondo referendum prima che sia troppo tardi
Roma. Il fronte anti Brexit del People’s Vote è stato rivitalizzato dalla conversione di Jeremy Corbyn, leader del Labour, alla loro causa, ma ancora non ha vinto la propria battaglia esistenziale: il secondo referendum sulla Brexit. “Corbyn potrebbe avere facilitato la partenza dal Mar Rosso, ma ancora non siamo nella Terra promessa”, ha scritto Andrew Adonis, un ex ministro blariano, sul magazine pro remain New European. Per convocare un secondo referendum è necessaria una maggioranza in Parlamento, che al momento non è affatto scontata. Tra i partiti favorevoli ci sono i laburisti – che hanno 245 seggi, ma ci saranno alcune defezioni – gli indipendentisti scozzesi (35), i lib-dem (11) e il nuovo gruppo di indipendenti (11) composto dai fuoriusciti laburisti e conservatori.
Quindi i voti mancanti andranno trovati tra i Tory centristi, quelli che fino ad ora hanno hanno sostenuto il governo. L’ala filoBrexit del partito non voterà mai a favore di un secondo referendum, e la corrente europeista ha annunciato da tempo il proprio sostegno. Thomas Cole, uno dei portavoce del People’s Vote, spiega al Foglio che “saranno decisivi i conservatori che stanno nel mezzo: quelli che sono a favore del remain ma non a favore del secondo referendum. Ci sono varie fazioni in Parlamento, e vedremo quale sarà il loro spirito il giorno del voto”. L’incognita più grande è il parere tecnico sull’accordo del consulente legale del governo, Geoffrey Cox, che negli ultimi giorni ha incontrato i negoziatori europei per capire se ci sono dei margini per rivedere l’intesa. “Un’interpretazione positiva da parte di Cox sul backstop (il regolamento ad hoc per evitare un confine tra Irlanda e Irlanda del nord, ndr) potrebbe rendere più accettabile l’accordo in Parlamento. Questo non cambierebbe il parere della gente, però potrebbe legittimare alcuni ripensamenti dei deputati.
I vertici dell’European Research Group (i falchi conservatori filoBrexit, ndr) potrebbero fare così.” Il pericolo per i brexiteers è che, a forza di criticare l’accordo della May, finiscano per rendere più probabile un secondo referendum. Il voto di Westminster sull’intesa della premier ancora non è stato programmato, ma probabilmente si terrà il 12 marzo. In caso di una bocciatura, il giorno dopo i deputati si esprimeranno sul “no deal” (il mancato accordo) che verrà quasi sicuramente respinto. A quel punto, il Parlamento può chiedere una proroga sull’uscita dall’Unione europea, che dovrà essere approvata da Bruxelles. I sostenitori del People’s Vote sperano che questo possa essere il punto di svolta: “La proroga potrebbe essere un pretesto per i deputati per sostenere un secondo referendum. I leader europei – soprattutto Donald Tusk e Jean-Claude Juncker – hanno chiesto di motivare la richiesta di un’estensione”.
La Gran Bretagna deve spiegare cosa intende fare durante la proroga. Se l’estensione fosse solo di due mesi, non ci sarebbero i tempi tecnici per svolgere un secondo referendum. “La May potrebbe richiedere la proroga senza fornire una spiegazione, e Barnier potrebbe rispondere che è necessaria una motivazione. A quel punto, il Parlamento voterà a favore di un’estensione più lunga per consentire un secondo referendum”. Per quanto riguarda il quesito, il giornalista Hugo Dixon, vicepresidente del People’s Vote e fondatore del sito d'informazione InFacts, spiega al Foglio che “la scelta dovrà essere tra il remain e un accordo già negoziato con l’Ue. Io spero che la May si convinca a sostenere un secondo referendum, proprio come ha fatto Corbyn. Non sarà facile, ma potrebbe essere l’unico modo per fare passare il suo accordo. E se dovesse perdere, non sarebbe poi così male. La premier nel 2016 ha votato per il remain. Quindi potrebbe raccontare ai cittadini: ‘Ho provato a fare la Brexit, ma non ci sono riuscita perché me lo hanno impedito gli elettori’”.