Gli anatroccoli sono il simbolo delle manifestazioni contro Putin organizzate da Navalny, sono un meme che rimanda all'inchiesta sulle dacie del premier Medvedev (Immagini prese dal sito di Navalny)

La generazione anatroccolo di Alexei Navalny

Anna Zafesova

Prima il suo blog, poi gli antitelegiornali. L'oppositore di Putin è diventato un brand internazionale e ha inventato il merchandising del dissenso

“Buonasera, a Mosca sono le 20 e va in onda la Russia del futuro. Ciao a tutti, sono Navalny, colui che non può essere nominato”. L'antitelegiornale inizia così, ogni giovedì, su YouTube, e per più di un’ora racconta le notizie che la televisione di Stato non mostra. Il Tg ufficiale racconta il presidente che taglia nastri, stringe mani, gioca a hockey, abbraccia studenti e premia atleti, quello clandestino denuncia l’avvelenamento di centinaia di bambini negli mense degli asili moscoviti rifornite dal “cuoco di Putin”, le dacie a 5 stelle dei vicepremier, gli omicidi ordinati dai senatori del Caucaso, le gaffe delle ministre, gli avvelenamenti a Salisbury, le ruberie degli oligarchi e i morti per neve e ghiaccio sulle strade che non vengono più pulite a Pietroburgo.

 

È un misto di solido giornalismo d’inchiesta, fact-checking, satira e denuncia sociale, un po’ Zanzara e un po’ Iene, ma soprattutto è opposizione, come la si può fare in Russia nel secondo anno della quarta presidenza putiniana. All’estero qualcuno ancora chiama Navalny “blogger”, i media anglosassoni gli hanno affibbiato il titolo ufficiale di “leader dell'opposizione”, il pubblico si ricorda le foto dei suoi molteplici arresti alle sue molteplici manifestazioni, ma oggi Navalny è una potenza mediatica. Tra YouTube e i social si è costruito un mini-impero digitale, con un palinsesto articolato, numerosi volti che circondano la star e regolari annunci di nuove assunzioni. I suoi tg su Internet fanno 700 mila visualizzazioni in 24 ore, i filmati con le indagini – clip di una decina di minuti con un montaggio rapidissimo, emoticon, cartoons e gif che li fanno sembrare un video di Instagram – sulla corruzione dei potenti arrivano a 3-5 milioni in una settimana, e la produzione ormai ha un ritmo giornaliero, scandito da decine di tweet, e dalle dimissioni e inchieste penali cui costringe ormai l’inscalfibile nomenclatura putiniana.

 

Tra YouTube e i social, Navalny si è costruito un mini impero digitale, con un palinsesto molto articolato

Una carriera da manuale della propaganda, che verrà insegnata ai corsi per i leader del futuro come quelli che lo stesso Navalny ha frequentato a Yale: dalla politica “classica” offline all’online e ritorno, per far coesistere piazza e rete, prigione vera e trionfi digitali, rompendo l’isolamento snobistico del dissenso elitista per diventare un fenomeno di massa. Tutti gli spazi che il Cremlino ha tolto allo scontento sono stati trasformati in opportunità: Navalny oggi sostituisce i media, la magistratura, il parlamento e anche il sindacato, con la sua neonata piattaforma che assiste i dipendenti pubblici nella battaglia per lo stipendio che gli spetta per legge.

  

  Navalny al Tribunale di Mosca nell'ottobre 2018 per l'appello della sentenza che lo ha condannato per attività contro il Cremlino (Foto LaPresse)


 

Una sorta di Caf, tutto rigorosamente online, che sta già raccogliendo migliaia di adesioni da quella massa di salariati statali che è stata per 20 anni il bacino elettorale principale di Putin. Staccandosi dal classico dissenso dell’intellighenzia che si divide tra i dibattiti nelle cucine moscovite e le aule di Princeton, gli uomini del suo Fondo per la lotta alla corruzione vanno negli ospedali della Siberia e nelle scuole del Volga, danno voce a minatori e sottufficiali, setacciano il web a caccia di storie di protesta locali e il “se no chiamiamo Navalny” sta diventando una minaccia efficace negli scontri con la burocrazia. Il metodo migliore per farsi spalare la neve sotto casa è quello di scrivere il nome dell’uomo che Putin non menziona mai sui cumuli e aspettare il pronto intervento del comune.

 

Molti sospettano che in realtà sia “un progetto del Cremlino”, un finto oppositore funzionale ad alcuni clan governativi per fare fuori i concorrenti più indigesti, ma Navalny arreca a tutto il sistema un danno d’immagine che non risparmia nessuno. I passanti si fotografano con lui per strada, il suo Instagram – con visite al parrucchiere e in pizzeria – è da rock star, il suo negozio online vende felpe con il suo nome e cover per iPhone (niente modelli coreani o cinesi) con gli anatroccoli gialli da cartone animato, un meme che rimanda all'indagine sulle megadacie del premier Medvedev: gadget “per riconoscersi in mezzo alla folla e capire che in realtà siamo tanti”.

 

“I principi sovietici sono diventati ranocchi”, scrive Ekaterina Shulman. Ma anche chi si presenta come il loro opposto ha perso appeal 

 Il merchandising del dissenso è solo una delle tante invenzioni di un rottamatore di metodi e modelli, un personaggio in 3D la cui ideologia si segnala nei gesti, nel look e nel vocabolario. Il problema delle elezioni non sono solo i politici, sono soprattutto gli elettori, e Navalny non solo forgia il linguaggio – anche chi non non lo ama copia i suoi modi di dire, la sua terminologia, la sua comunicazione – ma parla come il suo popolo, come Putin nel 1999, ed è l’opposto di Putin come Putin vent'anni fa lo era di Eltsin. Classe 1976, rappresenta degli elettori – il giorno che verrà ammesso alle elezioni – immuni ai sogni e alle paure dei loro padri.

  

Una generazione per la quale “i maledetti anni Novanta” ai quali Putin ha rappresentato l’antidoto non sono più un incubo postsovietico che non deve ripetersi, ma il decennio folle e libero cantato dalla vocina esile della ventenne star Monetochka, che per il suo hit “90” si è ispirata “ai racconti della nonna”: “Tutti sparavano e morivano di fame, e c’erano banditi ovunque, ma per me sono quasi delle fiabe”. Gli anni fondanti della nuova Russia, pieni di eroi e sfide, e di una violenza da ricordare con ironia, alla Tarantino. Il “prima” e “dopo” della generazione che ha vissuto il collasso dell’Urss e ne è rimasto spezzato in due metà inconciliabili non esiste per questi ragazzi, che non si squagliano di nostalgia a guardare vecchi film sovietici e trovano gli eroi del passato nel migliore dei casi incomprensibili – rozzi, maschilisti, infantili, esagitati – così come si bloccano di fronte a indecifrabili realtà come i negozi vuoti, le code, gli appartamenti in coabitazione e l’impossibilità di viaggiare all'estero.

“I principi sovietici sono diventati ranocchi”, scrive la studiosa di culture Ekaterina Shulman. Ma anche gli eroi che si presentavano come il loro opposto hanno perso appeal. Il giornalista musicale Alexandr Gorbaciov, cresciuto al suono di raffinate star degli anni Novanta-Zero come Zemfira e Mumiy Troll, nota con stupore che la generazione successiva di rocker non si pone più il problema di essere i “Radiohead russi”. Sposano curiosamente il rock clandestino dell’epoca comunista, inevitabilmente ruspante e ruvido, alla musica leggera sovietica, al rap e al pop di massa, accettando realtà che gli idoli patinati del ventennio precedente scartavano per cattivo gusto. Parlano di droga, di politica, di libertà e di rabbia, di sesso e di paura, ma la retorica viene smorzata dall’ironia. E soprattutto si allontanano da quello che Gorbaciov chiama “il progetto europeo della musica russa”, suonare qualcosa che possa sembrare di casa a Londra, fare finta di vivere altrove.

  

Una generazione N, che sostituisce la “Generation P” descritta da Viktor Pelevin (dove la P significava Pepsi e non Putin)

Il più raffinato critico di musica moscovita, Yuri Saprykin, nota la stessa svolta in una nuova generazione di rapper e blogger, stilisti e registi: “non sognano più le città di Herzog al posto dei prefabbricati multipiano... scoprono che i prefabbricati hanno una loro bellezza, che nasce dalla pesantezza, la tragedia, il trauma, il disagio e l'errore congenito di questo luogo, che proprio per questo è degno – pronunciamo infine la parola – di amore”. Mentre nell'immaginario culturale della propaganda putiniana sembra di essere tornati nel 1984, quello di Orwell ma soprattutto di Breznev, i ragazzi guardano Yuri Dud, classe 1986, intervistatore che spopola con un talk di “antitelevisione” su Internet e sul suo Instagram dedicato alla “Russia figa” posta sotto l'hashtag “#cazzutissimo” un paese molto diverso da quello “ufficiale”: vedute di grandi fiumi e graffiti originali nelle periferie, volontari che organizzano tour delle vecchie case di Pietroburgo e striscioni pacifisti ai concerti rock.

 

 Gli anatroccoli sono il simbolo delle manifestazioni contro Putin organizzate da Navalny. Il meme rimanda all'inchiesta sulle dacie del premier Medvedev 


Saprykin ritiene che nel momento in cui “la propaganda ufficiale sembra aver completato l'immagine splendente della potenza militar-ortodossa, la nuova generazione, senza che noi e forse nemmeno loro l'avessimo notato, si sta inventando una Russia nuova”. Che non rifiuta il passato né lo esalta. Lo accetta e lo lascia alle spalle. Il dilemma “filorussi o filoccidentali”, cardine della storia russa per 300 anni, sembra non sfiorarli nemmeno. La Russia c’è, la Russia è, e c’è anche il mondo che le sta intorno, nel quale si può essere russi e quindi diversi e nello stesso tempo sentirsi non troppo differenti nel condividere linguaggi, mode, idee e problemi.

 

Il loro orgoglio nazionale non passa né per il militarismo di stampo sovietico, né per il kitsch nazionalista di santi, poeti e conquistatori, è un amore pacato e disincantato che non contempla il dubbio amletico “andarsene o restare”: se ne vanno per restare e restano andandosene. Amano quello che in Russia c’è di bello, buono, divertente e intelligente, senza sensi di colpa o esaltazioni identitarie. Lo shock dell’avvento del capitalismo non l’hanno vissuto: ci sono nati dentro, e la “stabilità” garantita da Putin la vivono come uno stallo. La loro confusione ideologica è figlia dell’abbandono di contrapposizioni binarie, contaminarsi per loro non è un disagio. I dilemmi delle generazioni precedenti – capitalismo-comunismo, oriente-occidente, guerra-pace, libertà-totalitarismo, passato-modernità, popolo-intellighenzia – sono un non-problema. Il loro linguaggio suona troppo poco ostile ai liberali cosmopoliti di vecchio stampo, e troppo poco fervente ai “patrioti”. Sono sconcertanti, come i libri degli scrittori della nuova generazione, come “Zuleika apre gli occhi” di Guzel Jachina (Salani), che racconta l’esperienza nel Gulag di sua nonna come una tragedia, ma anche come un’avventura, e un’opportunità.

Non c’è più bisogno di fuggire, inventarsi identità finte, stirarsi i capelli come Malcolm X. Il periodo coloniale, l'adolescenza imitativa e il rifiuto degli adulti, è finito. Navalny è il personaggio ideale di questa nuova generazione. E’ indubbiamente russo e fiero di esserlo – il suo programma si intitola “La splendida Russia del futuro” – ma usa parole inglesi con la stessa frequenza e disinvoltura dello slang degli hipster di Mosca e Pietroburgo. Non mette esclamativi e non alza la voce, il suo tono è ironico e pratico. Vuole una Russia che assomigli all'Occidente, che però non vede come la terra promessa e irraggiungibile: si tratta di mettersi al lavoro e costruirlo, imparando dall’Europa dove serve, senza complessi di inferiorità o superiorità, senza quella divisione del mondo in “noi e loro” che – in positivo o in negativo – ha segnato la tragedia russa da quando Pietro il Grande tagliò le barbe ai boiardi e spedì i loro figli a studiare in Olanda e Germania.

 

Navalny non ha problemi a riconoscere il suo Paese come arretrato, povero e ridicolo, ne racconta la corruzione e uno sfacelo infrastrutturale che spingerebbe ad agire perfino Toninelli, ma si rifiuta di considerarlo una maledizione del destino. La discussione si sposta dal metafisico al terreno, dall’ideale al pragmatico, dall’esaltazione alla normalità, quella condizione che russofili e russofobi hanno sempre negato alla loro patria, e che forse resta la più agognata: la risposta classica al “Come va?” in Russia non è il troppo ottimista “Bene”, ma “Normalno”, insomma, senza esagerare, per il verso giusto.

  

Il suo negozio online vende felpe con il suo nome e cover per iPhone (niente modelli coreani o cinesi) con gli anatroccoli gialli

 È il “new normal” della “prima generazione non bastonata”, sognata dai primi rivoluzionari russi nell'Ottocento. Una generazione N, che sostituisce la “Generation P” descritta da Viktor Pelevin (dove la P in origine significava Pepsi e non Putin). Sono anche la generazione coccolata dai genitori come mai prima, in un Paese dell’infanzia breve e disciplinata: anche in Russia arrivano le mamme che aggrediscono i professori e non lasciano i pargoli incustoditi un secondo, tra danza, inglese e piscina. Il risultato è un cambiamento del paradigma sociale di portata epocale: un totalitarismo chiede di consegnare i figli allo stato, oggi invece il privato è prioritario, e l’educazione “bambocciona” diventa il miglior vaccino liberale.

 

A Kiev la vera rivoluzione cominciò quando i padri scesero in piazza a difendere i figli picchiati dalla polizia, a Mosca l’unico a mobilitare i ragazzi è Navalny. Il governo risponde vietando ai minorenni di manifestare, e nelle scuole e nelle università si minacciano di espulsione gli studenti che vogliono sfilare. Gli scontri tra la nuova generazione e la vecchia repressione si registrano a centinaia, e i genitori diventano furie a difendere libertà che non avrebbero rivendicato per se stessi. La rabbia delle mamme per i bambini costretti a scuola a scrivere la lettera al padre andato in una immaginaria guerra mostra la portata del cambiamento: in Unione sovietica semmai erano i ragazzini stessi a rimpiangere di non avere un padre che ha combattuto. La famigerata lacrima di un bambino della troppo abusata citazione di Dostoevski acquista un senso inedito: noi ormai siamo materiale di scarto, ma non toccate i nostri figli.

 

Nulla può essere più in contraddizione con questo bisogno di privato e di normale di un presidente che racconta i suoi nuovi missili come “miglior regalo di Capodanno ai russi”. Che i consensi più bassi a Putin si registravano tra i giovani, i benestanti e i colti, lo si sapeva da anni, ma ora la riforma delle pensioni e la crisi economica gli ha tolto l’appoggio anche dei più poveri, mentre l'avvicendamento demografico e sociale stanno rendendo minoranza la “maggioranza putiniana” di dipendenti pubblici e pensionati.

 

Il leader dei giovani la domenica va in pizzeria, infila nelle sue video-inchieste sulle tangenti fotogrammi dei manga e paragona il capo della Guardia nazionale Zolotov, ex bodyguard di Putin promosso a generale e decorato con una moltitudine di mostrine, medaglie e passamanerie dorate, al “Dittatore” di Sasha Baron-Cohen. Navalny non incute paura o timore reverenziale, fa ridere e ride insieme al suo pubblico. Non è una vittima del crollo del comunismo, non guarda al passato glorioso ma a un futuro normale. E dimostra con la sua stessa esistenza che il putinismo, nonostante le elucubrazioni del suo ideologo Vladislav Surkov sul “nuovo modello di Stato che il resto del mondo sta studiando”, non è una nuova ideologia millenaria, ma soltanto il postumo dell'ultima Urss. La nuova Russia è ancora tutta da inventare.

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