May una gioia
A 16 giorni dall’uscita, l’accordo della premier britannica è morto ai Comuni (un’altra volta). Cosa succede adesso, a Londra e a Bruxelles
Milano. È andata come doveva andare, anche questa volta. I Comuni inglesi hanno bocciato l’accordo sulla Brexit negoziato dalla premier Theresa May con l’Unione europea, un’altra brutale sconfitta (391 contro, 242 a favore). A nulla sono serviti i rimandi, le promesse, la manciata di convertiti che a gennaio aveva votato contro e ieri a favore della May, gli incontri notturni, i cambi di negoziatori, le telefonate, le minacce pure. O il mio accordo o rischiate di non farla proprio, la Brexit, aveva detto la May ieri – senza voce, sintesi perfetta di questa settimana-cruciale-per-la-Brexit: non ci sono più parole, solo raffreddore, tosse, occhiaie – all’apertura del dibattito parlamentare prima del voto, la minaccia più grave per tutto il suo partito, ché dalle sue parti fa più paura la no Brexit del no deal.
Sperava la May di guadagnarsi un ultimo, vitale consenso, visto che anche i ministri riottosi avevano iniziato a dire: turiamoci il naso, e votiamo sì, per il timore che, nel caos di queste ultime settimane, andasse perduta ogni cosa, soprattutto la vittoria al referendum del 2016. Ma non è servito a nulla, i Comuni hanno inflitto un’altra sconfitta alla May, ognuno con le proprie ragioni, pure senza troppa ragionevolezza. I cambiamenti cosmetici ottenuti dalla premier nel suo andirivieni da Bruxelles non sono bastati, e anzi il fuoco amico – sempre quello, sempre fatale – ha colpito di mattina presto, ieri, quando il consigliere legale del governo, Geoffrey Cox, ha detto che il rischio di restare intrappolati nel “backstop” nordirlandese – la misura di sicurezza prevista dall’accordo che lascia il confine tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del nord com’è oggi fino ad accordi futuri – “è in parte ridotto”, ma non eliminato del tutto. Tradotto: la May non ha ottenuto quei cambiamenti che aveva promesso di ottenere all’ultimo scontro parlamentare, quando chiese, il mese scorso, di avere il mandato dei Comuni per andare a riparlare con l’Ue. La May non ha ottenuto nulla e l’Europa ci vuole fregare, hanno aggiunto i brexiteer, che pretendono su questo famigerato backstop l’impossibile: vogliono una data di scadenza ma non hanno mai fornito un’alternativa al backstop stesso che non sia quel confine “hard” che il backstop vuole evitare (è stato introdotto per questo).
Che cosa succede ora?
Oggi il Parlamento dovrebbe votare una mozione per evitare lo scenario più catastrofico: il no deal. Questa mozione dovrebbe passare: stando ai conteggi attuali, il cosiddetto partito del no deal non ha la maggioranza, e anzi anche tra i più falchi l’uscita disordinata fa un pochino spavento (di tutte le fantasie che ancora esistono nel mondo brexiteer quella dell’uscita senza lividi è fortunatamente in fase declinante). Se l’ipotesi no deal viene quindi esclusa, l’unica alternativa rimasta – questo è il voto previsto per giovedì – è chiedere tempo, prolungare l’articolo 50 e rimandare l’uscita oltre il 29 marzo. Il testo di questa eventuale mozione non c’è ancora, ma sul tempo in più da richiedere all’Ue ci sono molte incognite. La durata, prima di tutto, e poi: tempo per fare che cosa? Sulla durata si discute sia a Londra sia a Bruxelles, e in ogni caso il Regno Unito dovrebbe partecipare alle elezioni europee, che dal punto di vista tecnico non è un problema (gli inglesi partecipano al voto, quando e se faranno la Brexit i loro seggi saranno distribuiti tra gli altri paesi), ma dal punto di vista politico lo è: gli inglesi hanno votato per uscire dall’Ue quasi tre anni fa, e ora sono ancora qui a eleggere parlamentari europei.
Poi c’è la domanda cruciale: a che cosa serve il tempo in più? L’Ue, prima di dare il proprio assenso alla eventuale richiesta inglese, vuole avere una risposta a questa domanda. Si cambia l’accordo e si va verso l’opzione norvegese? Si fa un altro referendum? Si fanno nuove elezioni? Con tutta probabilità Londra non sa rispondere (nemmeno) a questa domanda, ma senza una motivazione, l’Ue potrebbe bocciare la richiesta della proroga. Michel Barnier, caponegoziatore dell’Ue, a un’ora dal voto decisivo ha ribadito: senza accordo non c’è alcun periodo di transizione, basta con le “illusioni pericolose”.
Ma non è esclusa un’altra ipotesi: un terzo voto sull’accordo, dopo il vertice europeo del 21-22 marzo. Molti in Europa sono convinti che la May voglia andare a quell’ultimo incontro per provare a fare pressioni last minute, e tornare a Londra con un ultimatum e un altro voto da tenere in frettissima: o questo accordo o niente Brexit. Per il 23 marzo, il People’s Vote, il movimento che vuole organizzare un altro referendum, ha organizzato una marcia: l’ultimatum della piazza.
Dalle piazze ai palazzi