Un membro del Ku Klux klan durante la marcia "Unite the Right" a Charlottesville, in Virginia nel luglio 2017 (foto LaPresse)

La guerra a casa

Daniele Raineri

Il punto sul suprematismo bianco internazionale che ispira le stragi (e Trump non c’entra molto)

New York. Kathleen Belew è una professoressa di Storia americana che lavora all’Università di Chicago e che pochi mesi fa ha pubblicato un tomo di più di trecento pagine sul suprematismo bianco (“Bring the War Home: The White Power Movement and Paramilitary America”), quindi sull’ideologia transnazionale che è stata d’ispirazione al terrorista che venerdì ha ucciso cinquanta persone in due moschee in Nuova Zelanda (e a ottobre aveva spinto un uomo a massacrare tredici persone nello stesso modo in una sinagoga di Pittsburgh, negli Stati Uniti).

  

Un punto in particolare colpisce nel manifesto scritto dal terrorista come giustificazione: in Europa centinaia di migliaia di appartenenti alle Forze armate e altrettanti nella polizia avrebbero le stesse idee suprematiste ma per ora non escono allo scoperto. Il 20 febbraio un ufficiale della Guardia costiera americana è stato arrestato perché preparava un attentato per uccidere un numero molto alto di civili (in questo caso il bersaglio principale erano i politici democratici al Congresso, inclusa la Speaker Nancy Pelosi). Il saggio di Belew studia senza eccessi lo stesso punto – per quello che riguarda l’America – e offre una ricostruzione interessante: il suprematismo bianco in America si è rafforzato quando alcuni militari sono tornati dal conflitto nel Vietnam e hanno formato milizie paramilitari di estrema destra per “portare la guerra a casa” (l’attentatore non faceva parte di una milizia paramilitare, ma basta vedere come si era travestito per la strage – in mimetica, elmetto e giberne – per capire quanto fosse condizionato dall’idea).

 

Nel libro è citato un dato degli anni Ottanta che dice che i suprematisti bianchi americani sono circa venticinquemila, ma se si contano anche i simpatizzanti si arriva a duecentomila. Trent’anni dopo il suprematismo bianco è in aumento? Sono di più? “In realtà i numeri non sono il modo migliore per prevedere se ci sarà violenza legata ai gruppi white power – dice Belew al Foglio – La ragione principale è che alla fine degli anni Ottanta il movimento è passato a un’organizzazione in cellule e si è concentrata sul reclutare un numero piccolo di fanatici invece che grandi numeri di persone a casaccio. Per questo motivo, il calo dei membri di un gruppo potrebbe equivalere a un aumento della violenza, perché è un segnale che il gruppo vuole passare alla lotta armata”.

 

Il libro stabilisce una correlazione tra milizie paramilitari e la guerra in Vietnam. È una cosa che succede anche oggi dopo le guerre in Iraq e in Afghanistan? “Nel corso della storia americana, il periodo successivo alle guerre è sempre coinciso con un aumento della violenza ai margini del discorso politico e non sarei sorpresa di ritrovare questa tendenza anche in altri paesi. Il dopoguerra coinvolge tutta la società ed è sempre un tempo adatto alle organizzazioni violente. Oggi che siamo impegnati in più guerre prolungate dobbiamo ancora fare i conti con quest’effetto rimbalzo”.

 

Ci sono ceppi diversi di suprematismo bianco? Oppure sono tutti la stessa cosa? “Esperti e giornalisti esagerano nel fare distinzioni perché è molto umano introdurre categorie e tentare di separare i membri del Ku Klux Klan dai neonazi, dagli estremisti antitasse, dagli skinhead e da altri in America. Ma fanno tutti parte del movimento white power. Gli archivi ci dicono che anche se a volte sono in disaccordo su qualche punto minore, alla fine condividono la stessa ideologia e vediamo i loro uomini passare da un gruppo all’altro oppure fare parte di più gruppi allo stesso tempo. L’intero è più importante dei singoli ceppi ideologici”.

 

L’Amministrazione Trump con il suo comportamento e la sua retorica e le sue omissioni è stata in qualche modo d’aiuto al suprematismo bianco? Ha fatto da conduttore, ha facilitato? “Ci sarebbe bisogno di una bella conversazione su come certa politica incoraggia questi elementi, ma si tratta di un fallimento molto più grande di una sola persona o di un solo gruppo. Mai nella storia dell’America i tribunali, l’opinione pubblica e i politici hanno fatto qualcosa per contenere questo movimento e la sua violenza. Ci sarebbe bisogno di capire che il white power è un movimento sociale, così la violenza potrebbe essere capita e ci potrebbe essere una risposta”.

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)