Ti fidi del Partito? Il caso Huawei e i dilemmi dei governi Ue
I dubbi sull'impiego dell’azienda cinese nella costruzione di infrastrutture tecnologiche strategiche non riguardano un’azienda, ma tutto il sistema cinese. Lotte tra giuristi
Milano. La battaglia in occidente attorno a Huawei e all’impiego dell’azienda cinese nella costruzione di infrastrutture tecnologiche strategiche come il 5G si combatte tutta attorno a un’unica domanda: ci si può fidare? Se da un lato e dall’altro dello schieramento ci sono America (“non ci si può fidare”) e Cina (“ci si può fidare”), in occidente, e specie in Europa, la frattura riguarda soprattutto i governi da un lato e le loro agenzie d’intelligence dall’altro. I primi avrebbero seri problemi a bandire Huawei dalle aste sulle telecomunicazioni e dalle forniture pubbliche come hanno fatto Stati Uniti e pochi altri paesi occidentali finora. Sia perché significherebbe privarsi di uno dei leader tecnologici del settore, sia perché una mossa del genere potrebbe facilmente scatenare la suscettibilità di Pechino, con ripercussioni piùampie. Al contrario le agenzie d’intelligence, pur riconoscendo in larga parte che non esiste una “pistola fumante” che provi che Huawei potrebbe costituire un pericolo per la sicurezza nazionale, considerano l’azienda cinese un “unknown unknown”: Huawei non è un’azienda come le altre, e le tecnologie che andrebbe a costruire sono troppo delicate e complesse per escludere con certezza assoluta dei tentativi di spionaggio/boicottaggio/manipolazione, dunque meglio evitare. Un caso esemplare è quello della Germania.
La scorsa settimana Peter Altmaier, il ministro dell’Economia tedesco, ha annunciato che, dopo un lungo ponderare, Berlino non ha intenzione di escludere Huawei dalle aste per le forniture del 5G che si tengono oggi, anche se ha aggiunto che dovranno essere applicati “i più elevati standard di sicurezza”. Immediatamente è arrivata la ritorsione di Washington, che ha detto che non condividerà intelligence con gli alleati che fanno costruire a Huawei le loro infrastrutture strategiche. Tre giorni dopo, un rappresentante dell’agenzia di intelligence Bnd ha detto a una commissione parlamentare che Huawei “non è un partner affidabile per il 5G”, evidenziando la distanza tra il governo e i servizi.
Ma in mezzo a questo scontro tra intelligence, cancellerie e superpotenze, c’è una categoria che forse più di ogni altra può aiutare a rispondere alla domanda annosa di cui sopra: i giuristi. Buona parte delle controversie, infatti, nasce dall’ormai celebre legge sull’Intelligence approvata da Pechino nel 2017, che in teoria dice che “organizzazioni e cittadini [cinesi, ndr] devono, conformemente alla legge, sostenere, cooperare e collaborare con il lavoro dell’intelligence nazionale”. Sulla base di questa legge, si dice, se il Partito comunista cinese chiedesse a Huawei di spiare o manomettere, l’azienda sarebbe obbligata a farlo.
Da tempo ormai Huawei ha intrapreso una gran battaglia mediatica in occidente per contestare questa interpretazione della legge. In particolare, all’inizio del mese ha annunciato che avrebbe denunciato il governo americano che ancora bandisce i suoi prodotti: questo bando, sostiene Huawei, è discriminatorio perché non ci sono prove che Huawei sia un’azienda meno affidabile per esempio di Samsung (nel settore dell’elettronica di consumo) o di Nokia (nel settore delle reti). La causa di Huawei, così come tutta la sua battaglia in occidente, si basa su un’opinione legale (più precisamente una “dichiarazione”) dello studio legale Zhong Lun, uno dei più importanti di Cina, realizzata nel maggio del 2018 e usata ampiamente da Huawei come dimostrazione della sua affidabilità. L’opinione legale, che è stata sostenuta anche dallo studio inglese Clifford Chance, sostiene che in realtà Huawei non sarebbe obbligata a rispettare la legge sull’Intelligence e altre leggi simili (sono analizzate anche le leggi su Antiterrorismo, su Cybersicurezza e sul Controspionaggio. Tutte dicono all’incirca la stessa cosa: ciascuna parte dello stato cinese deve rispondere agli ordini del governo).
Questa opinione legale di 37 pagine fa storcere il naso a tutti gli esperti di legge in Cina, e uno di essi, Donald Clarke, che è professore alla Law School della George Washington University, ha pubblicato ieri un debunking dettagliato della dichiarazione dello studio Zhong Lun che suona molto convincente. Anzitutto, il parere legale a sostegno di Huawei manca di coerenza interna in molti punti. Per esempio, sostiene che le controllate all’estero di Huawei non sarebbero obbligate a seguire la legge come invece lo sarebbe Huawei Cina, dimenticando che le controllate sono, appunto, dipendenti dalla casa madre.
Ma soprattutto, e sopra ogni altro argomento, chiunque voglia discettare sull’applicazione della legge in Cina non deve mai dimenticare che “il punto non è cosa dice la legge cinese sulla possibilità per il governo di dire a compagnie come Huawei cosa fare. Il punto è cosa il governo cinese può effettivamente fare, indipendentemente dal testo della legge”. Infatti: “Il sistema politico cinese è nella sua essenza leninista (…) e non riconosce limiti al potere del governo”, specie quando si tratta di sicurezza nazionale. Anche se la legge sull’Intelligence riconoscesse libertà d’azione a Huawei (e comunque non lo fa), un governo che compie detenzioni extralegali e ignora le proprie leggi senza temere conseguenze ha infinite leve economiche e politiche per piegare Huawei al suo volere. Non dimentichiamo che la Costituzione cinese garantisce ai cittadini piena libertà di parola e di stampa, un perfetto controsenso visto l’autoritarismo sempre più pressante del regime comunista.
E dunque la vera domanda che i governi occidentali e specie europei devono porsi in questo caso non è “Ci si può fidare di Huawei?”, ma piuttosto: “Ci si può fidare del Partito comunista?”.