Emmanuel Macron al vertice a Bruxelles sulla Brexit (foto LaPresse)

L'ultimatum di Macron

David Carretta

Per Parigi la Brexit è tutta una questione di chi si ne va: o Theresa May o tutto il Regno Unito

Bruxelles. Emmanuel Macron giovedì ha lanciato un ultimatum a Theresa May sulla Brexit: se il tuo accordo non passa ai Comuni la prossima settimana, o te ne vai tu o il 29 marzo se ne va (senza accordo) il Regno Unito. “Un non voto o un ‘no’ ci porterebbero direttamente al no deal”, ha detto il presidente francese, rovesciando gli argomenti sovranisti sulla premier britannica: “È molto importante che i dirigenti europei rispettino e ascoltino le scelte dei popoli quando si esprimono”. Quanto a una proroga lunga, Macron è stato più sottile. “Non possiamo avere una situazione in cui in modo durevole, senza progetto e senza maggioranza politica, saremmo condotti a prolungare la situazione attuale”, ha spiegato, per una proroga lunga “serve un cambiamento politico profondo”. Tradotto: se i Comuni bocciano l’accordo, cara Theresa, o ti dimetti o sarà no deal. 

  

A sette giorni dalla Brexit l’ultimatum di Macron ha risvegliato il vertice europeo che, altrimenti, si sarebbe accontentato di ributtare la palla nel campo della politica britannica, senza dare indicazioni chiare sui rischi della prossima settimana. La sintesi preparata dal presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, prevedeva un solo scenario: il via libera ai Comuni lunedì o martedì aprirebbe la strada a una proroga tecnica fino al 22 di maggio (altrimenti il Regno Unito dovrebbe partecipare alle elezioni europee annunciandolo entro l’11 aprile). La May era arrivata a Bruxelles con la sua imperterrita strategia dell’ambiguità. La sua richiesta era di una proroga breve per permettere ai Comuni di fare le “scelte finali” sulla Brexit “il più presto possibile” (ma anche dopo il 29 marzo). Alcuni leader dell’Ue erano pronti a dare a May un paio di settimane per trovare la maggioranza e far votare ai Comuni il suo accordo. Solo che nel frattempo la situazione a Londra è diventata sempre più disperata. L’intervento in tv della May, mercoledì sera, durante il quale ha accusato i parlamentari di tradire il popolo con la loro incapacità di decidere sulla Brexit, non ha aiutato a convincere i riottosi a sostenere il suo accordo. “Nessuno di voi è un traditore”, ha risposto lo Speaker, John Bercow, lanciandosi nell’ennesima difesa del Parlamento. Sindacati e associazioni di imprenditori hanno avvertito che il “paese è di fronte a un’emergenza nazionale” e hanno chiesto di trovare “un piano B”. Una petizione per revocare la Brexit ha raccolto oltre un milioni di firme in meno di 24 ore.

  

Anche i 27 dell’Ue hanno iniziato a mostrare segnali di panico. Dopo quasi tre anni di unità indistruttibile, da qualche giorno sono emerse le prime crepe. La Francia guida il gruppo di paesi che insiste per la linea dura. La Germania vuole evitare a ogni costo un no deal. Nelle riunioni tra gli ambasciatori degli scorsi giorni, il rappresentante di Berlino ha espresso la sua contrarietà a imporre condizioni, come una sola proroga o limiti di tempo. “Quanta pazienza abbiamo? Credeteci o no, ma è illimitata, perché il Regno Unito è importante e una buona relazione futura non può iniziare con un crash”, spiega al Foglio un diplomatico tedesco: “Negozieremo fino a quando avremo un risultato”. Ma il pragmatismo di Angela Merkel non è in contraddizione con l’intransigenza di Macron. Secondo molte fonti, la May non ha un piano ma si sarebbe convinta che è meglio uscire senza accordo il 29 marzo piuttosto che accettare l’umiliazione di un rinvio della Brexit alla fine del 2019 o del 2020, con il pericolo di un secondo referendum per revocare l’uscita o di un accordo troppo “soft” per tenere unito il suo Partito conservatore. Se è così, l’unica soluzione per evitare quella che il premier olandese Mark Rutte ha definito la “catastrofe”, è l’uscita della May.