Frattura a sinistra
Su Israele il Partito democratico rompe la sua storica unità. Ma non c’è ancora lo “Jexodus” sognato da Trump
New York. Israele è diventato la questione che divide i democratici americani e mette la vecchia guardia contro la nuova generazione. E’ una grande soddisfazione per i repubblicani, che non vedevano l’ora di individuare il punto più debole degli avversari e che si sentono con le spalle molto coperte perché il presidente Donald Trump si muove in sintonia perfetta con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
Giovedì due parlamentari democratici hanno presentato alla Camera una mozione a favore di Israele che condanna il movimento per il boicottaggio anti israeliano e riafferma il sostegno alla soluzione dei due stati. Si trattava di una mossa politica per annullare la percezione che il Partito democratico sia diviso sul sostegno a Gerusalemme. Ma la mossa è svaporata nel disinteresse generale perché lo stesso giorno Trump ha annunciato con un tweet che l’America potrebbe riconoscere la sovranità israeliana sulle alture del Golan, che gli israeliani conquistarono nel 1967 durante la guerra contro la Siria – e l’annuncio di Trump è una rottura con decenni di neutralità americana sulla questione e una presa di posizione forte a favore di Israele.
Il presidente americano nei primi due anni del suo mandato ha rovesciato molti di quelli che sembravano punti fermi della diplomazia. Ha annullato l’accordo sul programma atomico con l’Iran, ha spostato l’ambasciata a Gerusalemme (che equivale a riconoscere la città come capitale di Israele), ha tagliato i fondi all’Autorità nazionale palestinese e adesso ha riconosciuto – o sta per riconoscere – la sovranità di Israele sulle alture del Golan. Dal punto di vista materiale quest’ultima decisione non cambia nulla, perché quelle alture da decenni sono presidiate dall’esercito israeliano e la Siria dovrebbe cominciare e vincere una guerra per riprendersele – è molto improbabile. Ma è un altro segnale dell’appoggio incondizionato di Trump a Netanyahu, che è impegnato nelle ultime due settimane di una campagna elettorale incerta contro il rivale, l’ex generale Benny Gantz. “Trump è il miglior amico di Israele”, ha risposto il primo ministro israeliano, che lunedì e martedì sarà in visita di stato alla Casa Bianca. A Gerusalemme intanto il segretario di stato, Mike Pompeo, a una giornalista americana che gli chiedeva se Trump sia stato mandato da Dio per salvare gli ebrei ha risposto: “E’ possibile”.
Se questo è il clima dal lato dell’Amministrazione americana e dei repubblicani, è facile capire perché i democratici si sentono in difficoltà. La vecchia guardia del partito è compatta dalla parte di Israele e Nancy Pelosi e Chuck Schumer, i due leader democratici al Congresso, la settimana prossima parleranno entrambi alla tre giorni della conferenza annuale dell’Aipac (l’American Israele Public Affairs Committee, un’associazione di cittadini americani che promuove le relazioni tra i due paesi) a cui sono invitati anche Netanyahu e Gantz. La nuova generazione è diversa. La neoeletta Ilhan Omar è stata molto criticata perché su Twitter ha spiegato il sostegno a Israele con un’espressione – “it’s all about the Benjamins”, è tutta una questione di soldi (la faccia di Benjamin Franklin sulle banconote da cento dollari) – che richiama gli stereotipi antisemiti sugli ebrei e sui soldi e ha anche parlato di “doppia lealtà”, un’altra accusa storica contro gli ebrei americani. Il tentativo recente di riconciliare le due anime del Partito democratico, quella dell’appoggio a Israele e quella delle critiche, con una riunione a porte chiuse è finita con un gran litigio, secondo il resoconto che ne ha fatto il Washington Post. I quattro candidati democratici in testa ai sondaggi – Bernie Sanders, Beto O’Rourke, Kamala Harris ed Elizabeth Warren – non andranno alla conferenza dell’Aipac.
In questo contesto, Trump attacca i democratici e parla di “Jexodus”, ovvero del supposto esodo degli elettori ebrei dal Partito democratico a quello repubblicano. Che però almeno per ora è soltanto una boutade linguistica, perché i dati dicono che la tendenza va in senso contrario: alle elezioni di metà mandato di novembre il 79 per cento degli elettori ebrei americani ha votato per i democratici, contro il 71 per cento delle presidenziali 2016 e il 69 per cento delle ultime elezioni con Obama.
Cosa c'è in gioco