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Senza più l'inchiesta sul collo, Trump fa i suoi calcoli per rivincere

Daniele Raineri

L’economia forte avvantaggia il presidente, ma il voto americano segue regole nuove ed è molto identitario

New York. A parte confermare i rapporti dell’intelligence americana che nell’ottobre 2016 e nel gennaio 2017 rivelarono che il governo russo aveva eseguito due operazioni segrete per manipolare le elezioni presidenziali americane – gli stessi rapporti a cui Trump disse di non credere in mondovisione durante il summit di Helsinki nel luglio 2018 perché Putin gli aveva appena assicurato che non c’erano mai state interferenze russe. A parte l’incriminazione di sei uomini dell’Amministrazione Trump, inclusi il primo direttore della sua campagna elettorale Paul Manafort che è in carcere, il suo avvocato personale Michael Cohen, che andrà in carcere a maggio e che Trump ora chiama “il ratto”, e l’ex consigliere per la Sicurezza nazionale Mike Flynn che è in attesa di sentenza e deve stare lontano almeno cinquanta chilometri dalla capitale Washington come misura di sicurezza imposta dal giudice. A parte altri sottoprodotti dell’inchiesta, come il licenziamento del direttore dell’Fbi James Comey perché Trump voleva bloccare le indagini – come disse lui stesso a una delegazione di russi in visita allo Studio Ovale secondo una minuta dell’incontro mai smentita – o come le dimissioni di John Dowd, l’avvocato di Trump che si occupava di difenderlo da Mueller e che non voleva che il presidente andasse a testimoniare di persona “perché è troppo coglione e finirebbe per dare false dichiarazioni e quindi per incriminarsi da solo” (fonte: Bob Woodward. Trump ha poi risposto alle domande per iscritto). A parte queste storie collaterali, l’inchiesta del procuratore speciale Robert Mueller sintetizzata in quattro pagine dal ministro della Giustizia William Barr ha stabilito che non c’è stata collusione tra il governo russo e il presidente americano e quindi la vittoria politica è del presidente. Domenica “potrebbe essere stato il giorno migliore della presidenza Trump”, scrive il New York Times, e la Bbc lo dice senza l’elemento del dubbio: “Il giorno migliore della sua presidenza”. La grande nuvola nera che incombeva sul presidente si è di colpo dissolta, scrivono il New York Times e il Washington Post, che in questi mesi avevano seguito entrambi a colpi di scoop e di analisi ogni nuovo capitolo dell’inchiesta. E ancora: le quattro pagine di Barr azzerano la possibilità di un impeachment e danno a Trump una spinta grande per i prossimi ventidue mesi del suo mandato.

   

    

   

Oggi “No collusion!” prende il posto di “Make America Great Again!” come slogan che entusiasma gli elettori repubblicani, dissipa la paura “degli intrighi dei liberal e dei media” e spinge il presidente di nuovo verso la Casa Bianca. A questo punto Trump ha tolto di mezzo un ostacolo molto largo alla sua rielezione nel 2020. Quante chance ha? Il sito Politico ha pubblicato due giorni prima dell’arrivo del rapporto Mueller un’analisi che ricorda una regola importante delle elezioni americane: quando l’economia va forte ogni presidente al primo mandato è piazzato molto bene per vincere anche il secondo mandato e quindi considerato che in questi anni l’economia è fortissima Trump “è sulla strada giusta per vincere nel 2020 landslide”, a valanga. 

   

        

   

Un’analisi di Political Behaviour (una rivista scientifica di ricerche politiche) controbatte che da qualche anno non è più così: votare è un gesto troppo identitario, ormai si vota a favore o contro senza guardare troppo all’andamento dell’economia. La regola un tempo valida ha cominciato a indebolirsi durante la presidenza Clinton, si è smarrita durante gli anni di George W. Bush e ormai non valeva più quando Barack Obama è arrivato alla Casa Bianca (doppio mandato pur in tempo di crisi). L’andamento dell’economia e i voti degli elettori non seguono più lo stesso schema, divergono, vanno in direzioni che non sono così prevedibili come prima. I giornali in questi mesi erano pieni di storie che riguardavano elettori di Trump che sono stati traditi dalle sue promesse economiche – sia agricoltori, sia lavoratori nel comparto dell’acciaio – ma che si dicevano comunque pronti a rivotarlo con entusiasmo. Dall’altra parte ci sono elettori appartenenti alle fasce con redditi medio-alti che intendono votare i candidati democratici anche se vogliono alzare le tasse sui loro redditi.

     

Ora che Mueller, l’uomo più serio del paese come riconosce pure Trump (ma i trumpiani per due anni e fino a un minuto prima della “assoluzione” lo hanno accusato di essere l’esecutore delle trame del Deep State), ha messo il suo timbro sulla fine delle accuse di collusione, i democratici devono affrontare una campagna elettorale che si concentrerà più sui temi del governo, dei programmi elettorali e delle proposte politiche e meno sul lato oscuro del presidente. La vecchia guardia del partito lo aveva già capito e la leader al Congresso, Nancy Pelosi, aveva già dichiarato di non voler tentare la via dell’impeachment ma quella della sfida politica. I giovani neoeletti invece sono senz’altro rimasti più delusi, vedi per esempio Rashida Tlaib che la sera della sua prima giornata da deputata aveva arringato così una piccola folla davanti a una telecamera: “Andiamo a fare l’impeachment a quel motherfucker!”. A giudicare da quello che si vede, i democratici si muoveranno su due direttrici, anzi lo stanno già facendo. Prima direttrice: chiederanno che il rapporto Mueller sia reso pubblico perché confidano che contenga informazioni dannose per Trump – il procuratore speciale non è arrivato a ottenere prove di collusione capaci di resistere a un giudizio in tribunale, ma ha comunque fatto la radiografia più approfondita del presidente. Tra gli altri, lo chiede Adam Schiff, che è l’uomo piazzato dai democratici alla Commissione intelligence del Congresso per dirigere le inchieste su Trump. Secondo un pettegolezzo che gira nella redazione del New York Times e che riferiamo come l’abbiamo sentito, ci sarebbero cinque copie del rapporto che circolano fuori dai canali autorizzati – ma forse, come in tutte le leggende metropolitane, è soltanto il desiderio fortissimo di mettere le mani sul rapporto che crea la diceria. I democratici vogliono concentrarsi sul punto che Mueller non ha voluto risolvere e che è stato deciso da Barr: l’ostruzione di giustizia. “Considerate le dichiarazioni di Barr contro l’inchiesta, non è un osservatore neutrale e non può prendere decisioni obiettive”, hanno scritto Pelosi e l’altro leader democratico al Congresso, Chuck Schumer. Si aspettano di poter fare domande direttamente a Barr in un’audizione in commissione il 9 aprile, fra due settimane.

   

Seconda direttrice per i democratici nel dopo Mueller. Faranno campagna elettorale senza sperare che Trump sia affossato da una delle sue ambiguità. A dire il vero, la stanno già facendo fin dall’inizio: la possibilità di un impeachment del presidente non era un argomento affrontato dalla ventina di candidati in campo, che preferisce parlare di argomenti più concreti e di programmi.

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)