La Brexit e l'età dell'incertezza
Mentre i politici inglesi fanno calcoli furibondi sul divorzio dall'Unione europea, “the people” spinge consumi e occupazione
Milano. Otto alternative al piano di Theresa May sulla Brexit presentate a Westminster, otto “no”. No sonori, no moderati e no quasi sì, ma tutti no. Il Guardian ci ha fatto un titolone che trasuda ironia e scoramento: “Finalmente il Parlamento ha potuto dire la sua: No. No. No. No. No. No. No. No”. Otto no e tutto un continente appeso a un manipolo di deputati che se cambiano idea cambiano le sorti del divorzio del Regno Unito dall’Ue, se non lo fanno lo cambiano lo stesso. La volontà popolare ridotta a trenta, quaranta persone: non se l’aspettava nessuno, non lo voleva nessuno. L’esercizio democratico è diventato un allenamento punitivo, che non ottiene nemmeno più i suoi (nobili) obiettivi dell’inizio: dibattere, discutere, confrontarsi, fare il meglio per il proprio paese.
Guardian front page, Thursday 28 March 2019: Parliament finally has its say: No. No. No. No. No. No. No. No pic.twitter.com/F21ltmOu1K
— The Guardian (@guardian) 27 marzo 2019
Theresa May ha offerto la sue dimissioni in cambio del consenso per l’accordo che ha siglato con l’Unione europea, e in questo annuncio si trovano riassunti la sua disperazione e i suoi errori strategici: se vince se ne va, se perde resta. Ma poi: resta? Politicamente la risposta naturale è no, ma di naturale qui c’è davvero rimasto poco. Chi ha fatto una battaglia brutale contro il deal della premier ora ha cambiato idea: si sono autodefiniti, ultimo sfregio a una storia horror, “gran maestri”, e giù photoshop di loro con i cappelli aguzzi del Ku Klux Klan, per ammucchiare macabro su macabro. Loro sono i Boris Johnson e i Jacob Rees-Mogg, i falchissimi della Brexit, che accusano la premier di tradimento oltre che di tutta l’incompetenza del mondo. Johnson si era dimesso da ministro degli Esteri, nel luglio dello scorso anno, proprio perché l’accordo che stava prendendo forma era per lui inaccettabile e inammissibile.
Theresa May's ERG Chequers daytrippers have apparently given themselves the nickname 'Grand Wizards'...but it's OK, they've said it is only informal! #r4today #BrexitCrisis pic.twitter.com/5EaMGAZuIy
— StrongerStabler (@StrongerStabler) 26 marzo 2019
Ora lui e gli altri sono a favore perché i gran maestri non capiscono nulla della fattibilità della Brexit ma per prendere il posto di Theresa May farebbero qualsiasi cosa. Chi non può ambire a quel posto resta recalcitrante: un po’ di falchissimi che non si piegano, e il Dup, la stampella nordirlandese della maggioranza parlamentare dei Tory di governo, che non si fa bastare nemmeno la testa della May servita sul piatto. Per ottenere quel che vuole, la premier – che spera di andare a Westminster già venerdì al voto – deve fare affidamento sui laburisti. Anche da queste parti di Brexit si capisce davvero poco e di potere molto di più, ma a differenza dei Tory ribelli che si accucciano leccandosi i baffi, il Labour della testa della May non se ne fa niente. Anzi, teme (giustamente) che questa sia l’ultima trappola piazzata dalla premier prima di uscire di scena: una staffetta di conservatori a Downing Street. Giovedì, per quel che vale la dichiarazione della linea del partito in questa stagione di indisciplina furiosa, il Labour ha detto: non appoggeremo l’accordo May.
Quindi: siamo dov’eravamo la settimana scorsa, la guida del Parlamento non ha cambiato granché. Se passa l’accordo della May, entro il 22 maggio il Regno Unito esce dall’Ue, non partecipa alle elezioni europee e la May esce da Downing Street (vorrebbe, si dice, partecipare al G20 di fine giugno, per fare l’ultimo saluto internazionale). Se non passa l’accordo May, Londra potrebbe chiedere la proroga lunga, partecipare alle europee e organizzare o nuove elezioni o un secondo referendum. Altrimenti, no deal il 12 aprile. Poco è cambiato, non cambia quasi niente da un po’, anche se questo slittamento di tempo e di energie è visto come uno spintonamento verso soluzioni sempre più soft, che siano un cambio di governo o un cambio di accordo. A guidare questi spintoni è “the people”, con le sue petizioni per revocare l’articolo 50, con la sua marcia per un secondo referendum, con il suo diritto di cambiare idea, con la consapevolezza che laddove le istituzioni che rappresentano il popolo falliscono, l’unica è tornare a sentire che cosa vuole il popolo. La “democracy fatigue”, come la chiamano gli inglesi, ha la forma rotonda. Per di più, secondo uno studio del Guardian, questo popolo reagisce all’incertezza e ai catastrofismi, continua a spendere a ritmi che non si aspettava nessuno mentre l’occupazione si consolida: questo popolo per nulla sopraffatto fa di incertezza virtù. Gli investimenti scontano la mancanza di fiducia e sappiamo che le prospettive economiche sono misere, ma nell’istantanea di oggi “the people” è la forza del Regno Unito, il suo grido di speranza, vogliamo venir fuori da questo enorme guaio chiamato Brexit. E fino allo scadere del tempo, fino all’ultimo secondo, come ha detto Donald Tusk, questo popolo è europeo.