Come il prossimo Parlamento europeo può cambiare l'Europa
Nessuno stravolgimento delle regole, ma passi avanti sull’integrazione. Uno studio ci dà qualche indicazione
Le elezioni europee si avvicinano e i vari partiti stanno già alacremente preparando le proprie liste e i programmi elettorali. Il governo sembra deciso a rimandare ogni decisione controversa, perfino quelle che sarebbero urgenti e necessarie per un’economia che si prospetta a crescita zero quest’anno, al dopo elezioni europee. È ovvio che questa attesa salvifica dei risultati delle elezioni europee non ha molto senso; questi possono avere degli effetti sugli equilibri politici interni, ma è molto dubbio che influenzino più di tanto il funzionamento dell’Unione europea, dato che sulle materie più importanti per noi, come le riforme economiche, sono i governi nazionali dei paesi membri che decidono. Si tratta comunque di elezioni importanti, perché tasteranno il polso delle opinioni pubbliche dei vari paesi europei sulle prospettive dell’Unione dopo un decennio infernale, che ha visto l’accumularsi di più crisi, da quella economica internazionale a quella dell’euro, dalla crisi dei rifugiati all’agonia infinita della Brexit.
Non c’è dubbio che la risposta dei paesi e delle istituzioni europee a questi shock ripetuti è stata tardiva e insufficiente, in parte per i conflitti tra i paesi e in parte per i limiti stessi del funzionamento dell’Unione europea e di quella monetaria, così alimentando la protesta anti-europea. Il dibattito che ne è seguito, alimentato dalle proposte della Commissione ma anche di singoli paesi, ha messo in evidenza varie opzioni, tra quelle che prevedono un rafforzamento dell’Unione e dell’area dell’euro, alle risposte sovraniste che prevedono invece un ritorno di risorse e competenze ai paesi membri. Le elezioni europee aiuteranno a chiarire il quadro. In questa prospettiva, è anche opportuno interrogarsi su quali siano le posizioni delle principali forze politiche nazionali che si fronteggeranno nella prossima tornata elettorale e anche di quali sono le posizioni dei parlamenti nazionali che per primi dovrebbero approvare le varie riforme.
Per questa ragione, assieme a colleghi tedeschi e francesi, nell’autunno scorso abbiamo svolto un sondaggio sulle opinioni dei parlamenti nazionali di Germania, Francia e Italia sulle varie ipotesi di riforma che sono sul tappeto, riguardanti l’attribuzione o meno di ulteriore competenze all’Unione europea, sulle possibili riforme dell’area dell’euro e sulle riforme istituzionali dei meccanismi di funzionamento dell’Unione. Si tratta dei tre principali paesi europei per reddito e popolazione, e dunque un loro accordo è certamente condizione necessaria se non sufficiente perché una proposta sia approvata. I risultati sono interessanti e mentre si rimanda alla ricerca per un’analisi più completa, vale la pena ricordarne qui i principali, soprattutto in un’ottica di politica interna.
In primo luogo, per quello che riguarda l’attribuzione di maggior competenze all’Unione, i tre parlamenti sono compatti nel sostenere l’ipotesi di attribuire un ruolo maggiore all’Europa nel campo dell’immigrazione, imponendo regole comuni per l’accoglienza e la distribuzione dei rifugiati tra i paesi, e in quello della difesa, sostenendo l’ipotesi di un esercito europeo, finanziato e controllato da istituzioni europee, per gli impegni militari internazionali. Tra le forze politiche, ferocemente contraria a ogni proposta di maggior integrazione è solo Alternative für Deutschland (AfD) e più debolmente la Lega, mentre favorevoli in misura maggiore o minore tutti gli altri partiti, compresi nel caso italiano il Movimento cinque stelle (M5s).
Ma quest’intesa tra forze sovraniste si spacca subito quando si passa alle riforme dell’area dell’euro. Qui quello che conta è la nazionalità piuttosto che l’orientamento ideologico. Su temi come l’allentamento del Patto di stabilità e crescita, il sussidio di disoccupazione europeo, il quantitative easing della Bce o l’introduzione di un bilancio per l’area dell’euro, i parlamentari francesi e italiani, compresi leghisti e grillini, sono molto favorevoli, mentre nettamente contrari sono i parlamentari tedeschi, quale che sia la loro appartenenza politica. Questo ha due conseguenze. Primo, non si capisce bene perché abbiamo dichiarato guerra alla Francia quando su questi temi siamo naturali alleati, e in particolare quando le opinioni del principale partito al governo, il M5s, risultano in sostanza molto simili a quelle dei parlamentari di En Marche. Secondo, non si capisce come su questi temi si possa formare un’internazionale sovranista, visto che Lega e AfD, e presumibilmente i partiti sovranisti degli altri paesi, sono su sponde opposte della barricata. Per dire, l’idea che i partiti populisti del nord siano disposti a concederci maggior spazio di manovra sui bilanci pubblici o a introdurre una riforma della Bce che la spinga a monetizzare il nostro debito sembra, alla luce di questi risultati, del tutto priva di fondamento.
Difesa, migranti, regole fiscali, bilancio europeo e unione bancaria. Non si capisce bene perché il M5s abbia dichiarato guerra alla Francia, quando su questi temi siamo naturali alleati. E non si capisce come su questi temi la Lega possa allearsi con i sovranisti di altri paesi, che sono su sponde opposte della barricata
Un altro elemento interessante sui temi dell’euro è una disponibilità dei parlamentari tedeschi (a parte, la solita irreducibile, AfD) a chiudere l’annosa vicenda dell’Unione bancaria, approvando l’ultimo tassello che manca, l’assicurazione europea sui depositi, forse anche alla luce delle difficoltà sempre più evidenti del sistema bancario tedesco. Infine, e sorprendentemente, anche il parlamento tedesco risulta a maggioranza “keynesiano”, nel senso che anche i tedeschi pensano che per rilanciare la crescita una maggior spesa in investimenti pubblici sia necessaria. Una buona notizia, visto che almeno finora l’indisponibilità del governo tedesco a spendere soldi è stata la principale responsabile della carenza di domanda aggregata nell’area dell’euro, che si riflette anche in avanzi crescenti della bilancia dei pagamenti e quindi in conflitti con gli Stati Uniti.
Maggior convergenza si registra invece sulle ipotesi di riforma della governance dell’Unione. Per esempio, tutti i parlamenti e tutte le forze politiche (perfino AfD si dichiara indifferente) sono favorevoli ad attribuire al Parlamento europeo l’iniziativa legislativa, al momento prerogativa della sola Commissione. Per quanto possa sembrare un aspetto meramente tecnico, si tratterebbe viceversa di una innovazione dalle conseguenze potenzialmente enormi. Il Parlamento europeo tende infatti a dividersi su linee ideologiche e non nazionali, e attribuirgli la competenza di proporre delle leggi consentirebbe di superare alcune resistenze attribuibili alle frizioni fra gli stati membri che si riflettono anche sulla Commissione.
Invece, non c’è accordo, neanche tra i parlamentari italiani, sulla proposta di rafforzare ulteriormente le istituzioni europee, finanziando il bilancio dell’Unione con risorse proprie su qualche base imponibile comune (come i redditi societari), invece che con trasferimenti da parte dei paesi, oltretutto vincolati, come succede oggi. Questo è un problema perché significa che rimarrà impossibile introdurre nel bilancio europeo strumenti comuni di stabilizzazione del ciclo economico, che invece sarebbero fondamentali qualora l’economia dell’eurozona desse nuovi segnali di debolezza.
Infine, tutti i parlamenti e la maggior parte delle forze politiche (di nuovo, con l’eccezione di AfD e della Lega) si dichiarano favorevoli a introdurre la maggioranza qualificata invece che l’unanimità nelle decisioni relative alla fiscalità diretta nell’Unione. Questo è importante, perché il fatto che la mobilità delle imprese e dei capitali nell’Unione europea sia totale, mentre la fiscalità su questi cespiti è rimasta nazionale ha comportato il fatto che molti paesi, soprattutto di piccola dimensione (come Lussemburgo, Olanda e Irlanda), abbiano potuto negli anni ridurre le tasse per attrarre imprese e capitali a danno degli altri paesi, soprattutto di grandi dimensioni. Un accordo su questi temi, a partire dai tre grandi paesi, darebbe un forte contributo a ridurre la concorrenza fiscale in Europa. Meriterebbe lavorarci.
Massimo Bordignon è economista dell'Università Cattolica