Il raggiro degli anti Ue
Ma quale alleanza sovranista europea, semmai c’è una redistribuzione di potere interno, guidata da Salvini
Bruxelles. Il tentativo di Matteo Salvini di costruire un’alleanza dei sovranisti in Europa rischia di andare a sbattere contro un ostacolo insormontabile: l’incapacità dei sovranisti di destra e sinistra di andare oltre il rifiuto dell’Ue e l’impossibilità di superare pregiudiziali nazionali per avere una piattaforma comune. Lo insegna l’esperienza dello stesso Salvini, che ha travato posto tra i banchi dell’Europarlamento per undici anni senza realizzare un solo punto dei programmi con cui si era di volta in volta presentato alle elezioni europee. Tra i sovranisti, solo la famiglia Le Pen ha trascorso più anni di Salvini a Bruxelles e Strasburgo. Marine è stata deputata europea per tredici anni, prima di riuscire a farsi eleggere all’Assemblea nazionale francese, dopo una serie infinita di sconfitte in elezioni locali e nazionali. Il padre Jean-Marie è presente dalla seconda legislatura (correva l’anno 1984, con una breve interruzione tra il 2003 e il 2004) e, se non fosse per la rottura dei rapporti con la figlia che impedirà la sua rielezione, sarebbe potuto diventare il decano dei deputati europei.
La durata ultradecennale dei mandati dei leader sovranisti non è indice della loro capacità di incidere sulla politica europea (in passato la Lega e la famiglia Le Pen si sono ritrovate ostracizzate in piccoli gruppi marginali di estrema destra o tra i non-iscritti). Ma la coppia Matteo-Marine ha perso un’occasione straordinaria per far cambiare indirizzo all’Europa nel corso dell’ultima legislatura, dopo lo sfondamento delle forze sovraniste di destra e sinistra alle elezioni del 2014. Cinque anni fa l’onda populista non aveva travolto l’establishment europeo: Partito popolare europeo e Partito socialista europeo avevano conservato la maggioranza assoluta.
Ma i sovranisti erano riusciti nell’impresa di affermarsi in diversi stati membri, e non di poco conto, tra paesi fondatori e grandi economie. In Francia, paese fondatore e seconda più grande economia della zona euro, era stato proprio il Front national di Marine Le Pen ad arrivare in testa con il miglior risultato della sua storia: 25 per cento e 24 seggi. Nel Regno Unito, seconda economia dell’Ue, era stato l’Ukip di Nigel Farage ad arrivare al primo posto sbaragliando Tory, Labour e lib-dem: 27 per cento e 24 seggi. I sovranisti di destra erano riusciti a vincere anche in Danimarca, dove il Partito del popolo danese (che era presente ieri alla kermesse di Salvini all’Hotel Gallia di Milano) aveva superato socialdemocratici e liberali: 27 per cento e 4 seggi. Ma il paese più sovranista di tutti era stato l’Ungheria, dove il Fidesz di Viktor Orbán (da poco sospeso dal Ppe per la sua deriva illiberale) aveva ottenuto il 56 per cento e 14 seggi, e l’estrema destra del Jobbik era arrivata al secondo posto con il 15 per cento e 3 seggi.
I sovranisti di destra erano diventati il secondo partito anche in Polonia, dove il PiS di Jaroslaw Kaczynski aveva quasi pareggiato con la Piattaforma civica di Donald Tusk, ottenendo il 32 per cento e 19 seggi. Più a ovest si erano piazzati al terzo posto in Austria con la Fpö (20 per cento e 4 seggi), in Olanda con il Pvv (13 per cento e 4 seggi), in Finlandia con i Veri finlandesi, anche loro presenti ieri a Milano (13 per cento e 2 seggi) e in Grecia con Alba dorata (9 per cento e 3 seggi). La crisi dei migranti non era ancora scoppiata, ma grazie alla crisi del debito sovrano e all’ostilità delle opinioni pubbliche del nord ai salvataggi dei paesi meridionali, i sovranisti di destra riuscirono a fare il loro primo ingresso al Parlamento anche in Svezia con i Democratici svedesi (10 per cento e 2 seggi) e in Germania con l’AfD, presente ieri (7 per cento e 7 seggi).
Le elezioni europee del 2014, complice la crisi dell’euro, furono segnate dall’emergere dell’altro lato del sovranismo, quello del populismo di estrema sinistra o antisistema. Le ragioni che motivavano gli elettori erano l’opposto di quelle del nord Europa: avversione all’Ue, alla Troika, alle dure condizioni poste nei salvataggi, alle strette regole sul deficit. Il substrato ideologico può apparire diverso su alcuni temi rispetto al sovranismo di estrema destra, ma la sostanza politica del sovranismo di estrema sinistra o antisistema è lo stesso: il problema è l’Ue, la soluzione è nazionale. In Grecia Alexis Tsipras e Syriza evocavano già l’uscita dall’euro come alternativa alla Troika, mentre in Italia il Movimento 5 stelle inseriva nel suo programma l’abolizione del Fiscal compact e il referendum sulla moneta unica. Risultato: Syriza ha vinto in Grecia (27 per cento e 6 seggi) e il
Calcolatrice alla mano, già nel 2014 si sarebbe potuta realizzare una grande coalizione (contronatura) dei sovranisti e populisti anti Ue. Tra estrema destra, estrema sinistra e antisistema, il numero di deputati contrari all’establishment di Bruxelles cinque anni fa era arrivato al 33 per cento, soglia oltre la quale l’adozione di alcuni provvedimenti chiave diventa più complicata. Non a caso, Jean-Claude Juncker definì la sua Commissione come quella della “ultima chance” nel suo discorso sulla fiducia davanti all’Europarlamento. Anche i sogni di una coalizione tra la destra moderata e la destra sovranista si sarebbero potuti realizzare già cinque anni fa. Un’alleanza tra il Partito popolare europeo, i tre gruppi della destra sovranista e i deputati non-iscritti dell’estrema destra avrebbe avuto il 52 per cento dei seggi dell’Europarlamento. Ma la convivenza tra nazionalisti è più complicata di come la racconta Salvini. Nigel Farage e Alternativa per la Germania non volevano stare con Marine Le Pen perché troppo di estrema destra e così si allearono con Beppe Grillo.
Il PiS di Kaczynski non voleva stare con Farage perché con la Brexit metteva in pericolo i polacchi emigrati nel Regno Unito e così si alleò con i Tory di David Cameron che ancora aspiravano a restare nell’Ue. Nessuno, nemmeno Le Pen figlia, voleva stare con i greci di Alba dorata o gli ungheresi del Jobbik perché troppo neonazisti. L’ungherese Orbán invece preferiva stare dentro al Ppe perché gli garantiva più influenza e protezione di fronte alle contestazioni per la sua deriva illiberale. Patto di stabilità, Eurobond, ambiente, trattamento delle minoranze nazionali in altri paesi e dei migranti di altri paesi nella propria nazione, rapporti con la Russia e con la Cina: nel 2014 ogni argomento era buono per dividersi per i sovranisti di estrema destra. E nel 2019 le cose non sono cambiate.
Alla convention di ieri di Salvini a farsi notare sono stati soprattutto gli assenti. Le Pen non è venuta perché – checché ne dica il suo alleato italiano – la presenza della leader del Rassemblement national avrebbe portato al boicottaggio da parte dei Democratici svedesi e del Partito del popolo danese, che considerano Marine infrequentabile. “I partiti nordici sono cauti per via di Le Pen”, spiega al Foglio una fonte vicina al Partito popolare danese. Il PiS polacco è rimasto alla larga, nonostante il pesante corteggiamento di Salvini, a causa delle posizioni filorusse del leader della Lega, di Le Pen e dei loro alleati della Fpö austriaca. Anche danesi, finlandesi e svedesi considerano le simpatie pro Cremlino come una linea rossa. “E’ un aspetto cruciale per molti paesi”, ha detto a Reuters il leader dei Democratici svedesi Jimmie Akesson. Il leader della Fpö austriaca, Heinz-Christian Strache, pur essendo già alleato con Le Pen, ha preferito declinare l’invito a Milano a causa del suo incarico di vicecancelliere a Vienna. Gli spagnoli di Vox esitano ancora tra la Lega e i polacchi del PiS. La grossa preda di Salvini è Alternativa per la Germania con la partecipazione del suo copresidente Jörg Meuthen, che attualmente siede nello stesso gruppo del M5s all’Europarlamento. Ma i sondaggi dicono anche che AfD, il 26 maggio, potrebbe fare meno bene che alle elezioni tedesche del settembre 2017.
Le attuali proiezioni sui risultati del 26 maggio smentiscono la narrativa di una prossima presa del potere dei sovranisti di destra. Quella in corso, semmai, è una redistribuzione interna ai tre gruppi dell’establishment europeo (Partito popolare europeo, Partito socialista europeo, Alleanza dei liberali e democratici per l’Europa) e ai tre gruppi sovranisti di destra (Conservatori e riformisti europei, Europa delle nazioni e della libertà, Europa della libertà e della democrazia diretta). Secondo l’ultima simulazione di fine marzo dell’Europarlamento, le tre forze tradizionali europeiste (Ppe, S&D e Alde) dovrebbero andare oltre il 60 per cento (con i Verdi arrivano al 66). I tre gruppi dei sovranisti di destra (Ecr, Enl e Efdd) non dovrebbero superare il 22 per cento. Esattamente come cinque anni fa.
In Italia, Salvini va molto bene e il M5s dovrebbe replicare il risultato del 2014. In Spagna è emersa l’estrema destra di Vox. In Olanda il Forum per la democrazia di Thierry Baudet sta prendendo il posto del Partito della libertà di Geert Wilders. Ma altrove i populisti sono in fase di riflusso. In Francia Le Pen scende, in Polonia il PiS è in difficoltà, e la Brexit ha un impatto estremamente negativo sulle compagini sovraniste con l’uscita dei Tory (uno dei due assi portanti del gruppo Ecr) e dell’Ukip (la seconda gamba del gruppo Efdd con il M5s). Comunque, le speranze di formare un unico gruppo di sovranisti di destra sono magre. “Forse dopo le elezioni”, spiega il polacco Ryszard Legutko. “Non avrà successo. Un gruppo di questo tipo non ci sarà”, ha detto lo svedese Akesson a Reuters.
Gruppo o non gruppo unico, Salvini potrà comunque dire che grazie alla sua posizione di vicepremier sarà in grado di incidere sulla Commissione e le nomine dell’Ue. Se di qui a luglio i governi nazionali dei 27 resteranno gli stessi, la prossima Commissione potrebbe avere quattro commissari espressione di esecutivi sovranisti: Italia, Ungheria e Polonia sul fronte dell’estrema destra; Grecia su quello dell’estrema sinistra. Ma anche in questo caso l’esperienza dell’ultima legislatura incita alla prudenza. Nel 2014 Orbán insieme con Cameron votò contro la scelta di Juncker come presidente della Commissione. Pochi mesi dopo, forte del 56 per cento alle europee, il premier ungherese chiese un portafoglio di peso per il suo commissario, ma al suo Tibor Navracsis vennero attribuiti lo Sport e la Cultura, tranne alcune competenze più delicate come i media. Un’esperienza analoga a quella di Orbán la visse l’allora primo ministro polacco, Beata Szydlo, quando a un Vertice dell’Ue del 2017 si oppose alla riconferma di Donald Tusk come presidente del Consiglio europeo. La premier del PiS mise anche il veto alle conclusioni del Vertice, ma l’odiato Tusk fu rieletto.
Salvini e Le Pen avrebbero potuto utilizzare questi cinque anni per tentare almeno di promuovere le loro cause. Partecipare alle riunioni delle commissioni parlamentari, presentare emendamenti, tentare di costruire un consenso anche solo tra forze conservatrici. Invece questa legislatura – come le precedenti – è state usata soprattutto come tribuna per discorsi da mettere su YouTube e come bancomat a spese dei contribuenti comunitari (contrariamente all’opinione corrente, sia Salvini sia Le Pen erano stati spesso presenti alle plenarie, in particolare per il rischio di perdere una parte delle indennità; al contempo alcune inchieste interne hanno rivelato spese irregolari da parte del loro gruppo, in particolare da parte degli eurodeputati lepenisti, come l’acquisto di casse di champagne e cene in ristoranti stellati a spese dell’Europarlamento).
Altri partiti sovranisti hanno partecipato al gioco, a volte con successo. Il Partito del popolo danese, che ha un elettorato rurale, è particolarmente attento alle tematiche ambientali. L’Ecr si è spesso alleato al Ppe per far passare posizioni favorevoli al libero mercato. Perfino il M5s è riuscito a far passare qualche sua idea (anche se in versione annacquata), salvo dover essere costretto a rinunciare a compromessi con l’establishment per una telefonata da Roma (è accaduto, tra l’altro, sulla riforma delle regole di Dublino). Il gruppo di Salvini e Le Pen, per contro, ha scelto la politica del “no” su tutto, perché l’obiettivo non è realizzare una politica ma negare l’Europa. In cinque anni, si contano sulle dita della mano gli emendamenti della Lega o del Rassemblement national che sono stati approvati dalla plenaria.
La legislatura che si sta chiudendo, tuttavia, non può essere considerata una disfatta totale per i sovranisti di estrema destra come di estrema sinistra. Il loro principale successo – e non è da poco – è di aver contagiato con le loro idee i partiti dell’establishment. Sull’immigrazione, il Ppe è complessivamente più vicino a Salvini oggi di quanto lo fosse cinque anni fa. Sull’austerità, i S&D hanno adottato toni analoghi a quelli di Tsipras. Tra frammentazione politica e radicalizzazione del centro, la governabilità dell’Ue è più difficile. Ma il rovescio della medaglia è una rimessa in discussione delle vecchie alleanze, che potrebbe avere un impatto sulla prossima legislatura. I partiti nordici del Ppe, che hanno chiesto l’espulsione di Orbán, sono più vicini a Emmanuel Macron e ai liberali che al capolista dei popolari per la presidenza della Commissione, Manfred Weber. I socialisti francesi potrebbero tranquillamente sedere nel gruppo di estrema sinistra della Gue perché hanno fatto del rigetto dell’Ue un elemento centrale del loro programma, come denuncia da alcuni mesi il commissario socialista francese, Pierre Moscovici.
Ma più che nell’Ue, il contagio delle idee e i successi nelle urne dei sovranisti di destra e sinistra ha avuto un impatto a livello nazionale. Nel 2015 Tsipras è arrivato al potere ad Atene e ha dato battaglia per cancellare la Troika e il memorandum che gli europei chiedevano in cambio degli aiuti finanziari necessari a tenere a galla il paese. Peccato che i primi sei mesi di Tsipras al governo siano costati ai greci i controlli sui capitali (con i limiti ai ritiri ai bancomat) e tra gli 80 e i 200 miliardi tra crescita in meno e debito in più secondo i calcoli del fondo salva-stati Esm. Nel 2016 Farage ha vinto la sua battaglia sulla Brexit, quando i britannici hanno votato per andarsene dall’Ue. Peccato che tre anni dopo il Regno Unito si ritrovi in un caos politico senza precedenti per la sua incapacità di scegliere e sull’orlo di una catastrofe economica se sceglierà il no deal. Nel 2018 gli italiani hanno eletto un governo M5s-Lega che, come primi atti concreti, ha scelto lo scontro su migranti e obiettivi di deficit. Peccato che il prezzo per l’Italia sia l’isolamento nell’Ue, il ritorno in recessione e il rischio di una nuova crisi del debito sovrano che questa volta costerà ancora di più.