Il blitz di Haftar non funziona e inguaia i suoi alleati (non l'Italia)
Il generale di Bengasi ha fallito, ora non avanza e non può negoziare. A Roma si battibecca invece che parlar chiaro
New York. E’ passata una settimana da quando in Libia le forze del generale Khalifa Haftar hanno tentato di entrare nella capitale Tripoli, ma non ci sono ancora riuscite. Il piano non prevedeva nulla di ciò che che stiamo vedendo in questi giorni: avrebbe dovuto consumarsi in ventiquattr’ore, avrebbe dovuto essere un blitz per mettere il mondo di fronte al fatto compiuto pochi giorni prima della Conferenza nazionale di Gadames – una piccola città al confine con l’Algeria, dove in teoria questa domenica Haftar e il suo rivale, Fayez al Serraj, avrebbero dovuto riprendere i negoziati. Le forze di Haftar sarebbero entrate a Tripoli in velocità come già hanno fatto nei giacimenti petroliferi del sud, avrebbero stabilito una presenza militare nel mezzo di una capitale popolosa, avrebbero cooptato qualche milizia locale che non si fa troppi problemi a passare di schieramento e a quel punto la comunità internazionale per evitare combattimenti urbani e quindi una carneficina avrebbe chiesto al governo di accordo nazionale di Serraj di cedere e di acconsentire alla maggior parte delle richieste del generale – come spiega tra gli altri anche Wolfram Lacher, un analista rispettato per i suoi viaggi continui in Libia e i suoi contatti con entrambe le parti. Invece è successo il contrario. Questo tipo di operazioni se non ha successo nelle prime ore si trasforma in una sequenza senza senso di scontri, avanzate e ritirate a singhiozzo. Le colonne del generale che occupavano le strade che portano verso Tripoli hanno dovuto imboccare sbocchi laterali per non fare più da bersaglio e sono bloccate da combattimenti ancora molto fuori dalla città. Gli aerei di ciascuna parte bombardano gli aeroporti dell’altra fazione. Haftar ha perso la scommessa di un’azione risolutrice, ha bruciato anni di avvicinamenti discreti a Tripoli e le fazioni libiche invece che adeguarsi al fatto compiuto e passare con lui si sono compattate contro di lui. Molti combattenti che non si sognerebbero di andare a morire per Serraj, considerato poco più di un pupazzo della comunità internazionale che non riesce a risolvere i problemi della vita di tutti i giorni, hanno preso le armi perché non vogliono finire sotto Haftar. Sono abbastanza per ricacciare indietro le colonne del generale verso est, verso Bengasi? Forse. Di sicuro sono abbastanza per trasformare i tentativi di affondo in un bagno di sangue.
E ora Haftar come farà a pretendere che gli altri trattino con lui, dopo che gli ha spedito contro i carri armati e li ha chiamati “oppressori”? L’inviato speciale delle Nazioni Unite Ghassan Salame aveva lavorato diciotto mesi per organizzare la Conferenza nazionale di Gadames, ora si dice che sia pronto a lasciare l’incarico. I problemi di valuta che affliggono i libici, nota il Financial Times, erano in via di risoluzione, i pozzi di greggio erano tornati a produrre bene e per quest’anno si prevedeva una crescita del pil libico al quattro per cento. Invece adesso le due parti si bombardano, Serraj definito “l’oppressore” ha ordinato l’arresto di Haftar e sarà difficile che a questo punto vogliano negoziare qualcosa (Serraj adesso è così dipendente dalle milizie che prima o poi quelle gli chiederanno di sdebitarsi, anche lui è in una posizione debole).
Il generale cerca di salvare la sua posizione con l’aiuto degli sponsor esterni. Giovedì c’erano rumors di un suo viaggio a Mosca, che lo appoggia ma con assai meno convinzione di quanto appoggi Bashar el Assad in Siria. La Francia ha bloccato una dichiarazione dell’Unione europea che condannava l’avanzata di Haftar – che in effetti ha distrutto il processo di pace e rischia di provocare una carneficina a Tripoli – e questo ha infine destato la politica italiana. Giovedì il vicepremier Matteo Salvini ha detto: “Se ci fossero interessi economici dietro al caos in Libia, se la Francia avesse bloccato un’iniziativa europea per portare la pace, se fosse vero... non starò a guardare. Anche perché le conseguenze le pagherebbero gli italiani”. E’ un sussulto, a cui andrebbe aggiunto che Fayez al Serraj in teoria rappresenta lo sforzo della comunità internazionale e dell’Italia per mettere d’accordo le fazioni libiche e riportare un po’ di stabilità, quindi sarebbe il momento di far sentire la propria voce. Ma l’altro vicepremier, Luigi Di Maio, ha subito replicato a Salvini che “non ci sarà una Libia bis”, intendendo con questo che non ci saranno azioni militari come nel 2011, come se tra il mutismo assoluto e l’intervento militare non ci fossero gradazioni in mezzo. Questa incertezza, che non permette al governo di esprimersi sulla Tav, figurarsi sulla Libia, ha incoraggiato Haftar nel suo azzardo disastroso verso Tripoli.