L'occidente è in crisi e Israele si volge a est
“Identità e sicurezza, così Netanyahu ha rivinto. E c’entra molto la caduta del liberalismo”. Parlano il conservatore Amnon Lord e il liberal Klein Halevi. “L’ordine liberale internazionale è a pezzi, ma lo stato ebraico ne è stato il figlio”
Roma. Se ci sono due titoli che spiegano bene lo stordimento dei ceti pensanti e riflessivi in Israele sulla vittoria di Benjamin Netanyahu sono quelli di Haaretz, il quotidiano simbolo dei caffè di via Shenkin a Tel Aviv, come il Tamar, rifugio della bohème intellettuale, il giornale specchio dell’élite culturale fondatrice e dei suoi figli, ma anche il foglio più detestato oggi dalla maggioranza. A mezzanotte, quando sembrava che il generale Benny Gantz fosse in vantaggio su Netanyahu, Haaretz festeggiava 71 anni di democrazia rinata. All’alba, quando era chiaro che “Bibi” aveva nuovamente vinto, Haaretz ha titolato che era l’ora della dittatura.
“Haaretz rappresenta quella parte di società diventata estranea alla situazione di Israele” dice al Foglio l’intellettuale conservatore Amnon Lord, già direttore del quotidiano Makor Rishon. “La società israeliana sta cambiando, dal peso degli ebrei immigrati dai paesi arabi a quelli dalla Russia. Poi ci sono radici ideologiche profonde: Ze’ev Jabotinski, Menachem Begin, Yitzhak Shamir, Ariel Sharon e adesso Netanyahu sono i leader storici del revisionismo di destra. È un tentativo di riformare la società, passare dallo statalismo al liberismo e di tornare all’identità. Netanyahu ha capito che la questione dell’identità ebraica è diventata importantissima, non solo per Israele, ma per l’occidente giudeocristiano. In occidente si guarda a Israele come una identità che non sta crollando, ma che sta diventando forte, mentre in occidente quella identità sta vacillando drammaticamente. Netanyahu ha capito che la cultura è molto importante nell’unità di una società. Siamo un paese di immigrati, la mia famiglia è polacca, ho amici iracheni, egiziani, marocchini e russi, ciò che ci rende un popolo è solo l’identità ebraica, come la lingua ebraica che è un miracolo del sionismo”.
La sinistra ha costruito il paese e si ritrova con un pugno di mosche (e di seggi). “Una egemonia gramsciana di mezzo secolo. Hanno controllato tutto, cultura, sanità, esercito. Netanyahu è il primo vero rivale di questo sistema egemonico, che continua a essere tale ma senza vincere più le elezioni. Nessuno è odiato come Netanyahu dalla sinistra in Israele e nel mondo occidentale. Sono nato in un kibbutz ma vivo a Gerusalemme e ho molti amici di estrema sinistra che sono diventati dei neoconservatori. È in corso una svolta”.
La sicurezza ha giocato un ruolo molto importante nelle elezioni. “Netanyahu ha compiuto traguardi importanti contro l’Iran e Hezbollah in Siria, abbiamo bombardato qualsiasi cosa che si muovesse” continua al Foglio Amnon Lord, ex direttore del giornale Makor Rishon. “Gli iraniani si sono ritirati dalle zone di confine. E Bibi ha compiuto questo complicatissimo lavoro sotto il naso dei militari russi grazie al rapporto con Putin. Su Gaza, Netanyahu è riuscito a portare a una calma relativa al confine rispetto a dieci anni fa. E questo è il risultato della guerra del 2014, quando il capo dell’esercito era proprio Gantz. La popolazione ha capito che Netanyahu ha sopportato la pressione ostile di Obama sui confini del 1967 e adesso abbiamo un partner nella Casa Bianca”.
Quello che Lord trova positivo, per Yossi Klein Halevi è un segnale d’allarme. “Queste elezioni non sono buone per me, non per quello che pensano gli europei, ovvero il rapporto con i palestinesi, ma per l’identità israeliana e per quello che sta accadendo in molti paesi” dice al Foglio Klein Halevi, columnist di testate come il New York Times, studioso che lavora allo Shalom Hartman Institute di Gerusalemme e autore del best seller “Letters to my Palestinian Neighbor”. “Netanyahu rigetta l’ordine liberale internazionale e vede Israele legato a forze conservatrici e in parte ha ragione. Il liberalismo occidentale ha tradito Israele in maniera grave. E la sinistra ha due anime qui: la vecchia sinistra israeliana nazionale e patriottica e la sinistra post- nazionale nata negli anni Novanta. La prima è stata screditata dal collasso del processo di pace. Ed è rimasta solo la sinistra cosmopolita. Tutto qui si sta spostando a destra. Ma per Israele è un azzardo costruire un’alleanza con gli illiberali perché alla fine non puoi avere una relazione di fiducia con loro. Non abbiamo scelta da tanti punti di vista, abbiamo bisogno di Trump, dell’indiano Modi e di Visegràd, Bibi pensa che siano stati eletti e che non abbiamo diritto di criticarli. Dobbiamo prendere i nostri amici per come sono.
“Ma il popolo ebraico è rinato dopo la Shoah, qui in Israele, in America e in Europa occidentale, grazie all’ordine liberale. È la precondizione per la nostra sopravvivenza, ma anche per la nostra crescita: pluralismo, libero mercato, rule of law. Il potere di Bibi sta nel sentimento israeliano di sfiducia verso l’occidente che non vede più motivi per difendere la causa israeliana. La vittoria di Bibi è l’orientalizzazione di Israele, dall’est Europa al medio oriente, ma io non so più cosa sia ‘occidente’. La globalizzazione ha minacciato le identità nazionali e le popolazioni hanno bisogno dell’identità. Negli anni Novanta si diceva che l’occidente si diffondeva a oriente. Oggi sta accadendo il contrario”. È forse dentro al destino di Israele, la cui linfa demografica vitale è arrivata da oriente. I “nuovi israeliani” vogliono essere ebrei, a differenza del sionismo delle origini che era una fuga dall’ebraismo.
Dalle piazze ai palazzi