Che fa la Russia in Algeria e Sudan? Fa un calcolo: il minor rischio possibile
Gli affari che Mosca aveva stretto con Bouteflika e con Bashir sono molti: armi, basi navali, operazioni minerarie. E ora ha paura del nuovo
Roma. La Russia non ha mai smesso di avere interessi nel mondo in via di sviluppo. In questi anni lo ha coccolato e sorretto, si è intrufolata nelle loro questioni nazionali e internazionali anche nei periodi più difficili come quelli delle primavere arabe, eppure di fronte alle nuove crisi che stanno travolgendo paesi come Algeria e Sudan, la Russia rimane immobile, per ora. Sono posti lontani e Mosca sta ancora pagando il suo intervento in Siria che da parte della popolazione – riluttante nell’accettare una guerra così lontana e che per tanti aspetti evoca il ricordo della sconfitta in Afghanistan nel 1989 – non ha avuto l’appoggio in cui il presidente russo Vladimir Putin sperava. Durante questi nuovi conflitti, queste nuove proteste, il Cremlino rimane a guardare. I suoi interessi Mosca li ha ovunque, in Algeria, in Libia, in Sudan, in nazioni per anni in mano a regimi. Questi interessi li ha sempre avuti, un retaggio sovietico, coltivato di nuovo da Putin che con quelle nazioni ha commerciato armi o ha ottenuto permessi per avviare operazioni minerarie. Ma i suoi accordi erano con quei regimi che ora, con forza e costanza, le proteste stanno rimuovendo, stanno venendo giù lentamente. Senza sangue, senza morti, ad Algeri come a Khartoum, soltanto con la forza di rivolte testarde e di un desiderio vorace di cambiamento.
L’Algeria, quella di Abdelaziz Bouteflika, era il maggior acquirente di armi russe e dopo le dimissioni del presidente che per dieci anni ha governato il paese, quei commerci sono in discussione. Il Cremlino sperava di mantenere le relazioni, sperava che una volta ceduto il potere, il successore di Bouteflika non sarebbe venuto meno agli accordi ma gli eventi hanno reso queste speranze un po’ più fragili. Quando ancora la piazza protestava contro la ricandidatura del presidente a un quinto mandato, il ministro degli Esteri algerino Ramtane Lamamra era volato a Mosca per rassicurare il Cremlino, gli aveva promesso che nulla sarebbe cambiato che tutto sarebbe andato per il verso giusto, aveva promesso che la continuità non sarebbe mai venuta meno. Parole e promesse che non riusciva più a controllare evidentemente, e due settimane dopo la visita, Ramtane Lamamra non era più ministro.
Vladimir Putin ha un rapporto molto stretto con Omar al Bashir, la Russia ha ammesso di avere mandato in Sudan dei consiglieri governativi e anche dei militari – ha ammesso soltanto quelli regolari, ma secondo diverse fonti ci sarebbero anche gli omini verdi, l’esercito russo irregolare –, si pensava che a difesa di Bashir, Mosca sarebbe intervenuta. Che contro le proteste, iniziate in silenzio a dicembre, avrebbe combattuto, non tanto per il rapporto personale tra Bashir e Putin quanto per gli interessi in discussione: il Sudan avrebbe concesso alla Russia la possibilità di costruire una base navale sul Mar Rosso. Invece la Russia è rimasta immobile. Soffre, vede le sue alleanza traballare, la sua capacità di influenzare affievolirsi, ma non interviene. Guarda.
Sta guardando anche in Libia dove, dopo aver appoggiato e armato il generale Khalifa Haftar, si è tenuta a distanza dalla sua offensiva contro Tripoli. “Vogliamo una soluzione pacifica”, ha detto il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov. La Libia è una delle scommesse di Putin, dal 2017 i russi hanno stretto una nuova relazione con Haftar, gli omini verdi sono anche in Libia e tenendosi a distanza il presidente russo esercita l’arte del possibile. Cerca gli altri potenziali alleati perché non è sicuro che l’offensiva del generale vada bene e per evitare conflitti che non può permettersi. Scommettere su Mosca è un rischio, offrirle patti è un rischio: non ha molto denaro da offrire ma ha sempre molto da prendere. Di solito agisce portando le sue competenze militari e le abilità delle sue aziende statali come quelle del petrolio e del gas, o investendo nelle infrastrutture. Lo fa in contesti senza un chiaro quadro democratico e legale, spesso con uomini forti – anche per questo il progetto del governo italiano di vendere il debito del paese al Cremlino non ha mai attratto Vladimir Putin che non ha mai potuto né voluto comprare i Btp italiani nonostante il corteggiamento gialloverde –, ma lo fa con chiunque sia disposto a offrirglisi. In Sudan come in Algeria, nonostante gli interessi, Mosca ha preferito non mostrare il suo coinvolgimento, ma teme che i suoi affari, i patti e le promesse si rompano contro l’entusiasmo di queste primavere. Mosca ha definito “incostituzionale” l’arresto di Bashir, ma subito dopo ha assicurato che non ci saranno mutamenti nella partnership strategica tra le due nazioni: “Non importa come sarà il nuovo governo, non c’è dubbio che cercheranno la cooperazione con la Russia in futuro”, ha detto Leonid Slutski, presidente della commissione Esteri della Duma all’agenzia di stampa Tass. Poche ore dopo la dichiarazione il ministro degli Esteri sudanese, al Dirdeiry Ahmed, ha assicurato che parteciperà al forum russo-arabo che si svolgerà a Mosca il prossimo 16 aprile.
Ma la forza della Russia è diminuita, ha dovuto ridurre significativamente le sue spese militari nell’ultimo anno e le guerre che servirebbero a far tornare quei dittatori garanti di patti e di strategie ora il Cremlino non le può fare. Le sue alleanze con regimi forti e antichi sono messi in discussione dalla volontà delle proteste. Per ora guarda, e non vuole rischiare.