Come funziona (male) la collaborazione tra Italia e Ue con la Libia
L'addestramento della Guardia costiera per intercettare i migranti, ma anche la condivisione di dati sensibili. Perché il piano fallimentare di Roma e Bruxelles per rafforzare Tripoli costa tanto, anche in termini di credibilità
Gli sforzi compiuti fino a oggi dall’Italia e dall’Unione europea per disinteressarsi della gestione dei flussi migratori, devolvendola in toto alla Libia, rischiano di fallire miseramente, come dimostrato dalla ripresa delle partenze verso il nostro paese. Eppure, nemmeno un anno fa (luglio 2018), il ministro dell’Interno Matteo Salvini tesseva le lodi degli agenti libici che a bordo di una manciata di motovedette perlustravano il Mediterraneo centrale alla ricerca di migranti. “Sono pienamente soddisfatto. Onore alla Guardia costiera libica”, diceva il capo del Viminale. Ma, qualche mese dopo, la stessa Unione europea aveva messo nero su bianco in un documento ufficiale che, con grandissima probabilità, puntare tutto sui libici per garantire la sicurezza del mare si sarebbe trasformato in un boomerang, con un costo economico e di credibilità molto elevato per l’Europa.
Per capire se davvero l’Italia e l’Ue abbiano fatto male i loro conti nel volersi affidare a Tripoli, basta guardare a cosa si intende davvero per “Guardia costiera libica”. Chi oggi gestisce la sicurezza in mare tra Libia e Malta è un manipolo di ex combattenti, guidati da ex generali gheddafiani del tutto autonomi rispetto al governo di Tripoli, quello guidato da Fayez al Serraj alleato del nostro paese. E’ a loro che dal 2013 l’Ue e l’Italia forniscono mezzi e denaro, oltre a informazioni sensibili, con l’obiettivo di affidargli l’intera responsabilità della sorveglianza del Mediterraneo centrale. Ora che il leader della Cirenaica Khalifa Haftar avanza verso la capitale e insidia con la forza l’autorità del nostro fragile alfiere Serraj, l’obiettivo di delegare a lui le attività di salvataggio dei migranti sembra quasi irraggiungibile.
L’Ue aveva messo in conto che le cose potessero andare male. Nel dicembre 2018, il Trust Fund europeo per la cooperazione con l’Africa aveva diffuso un Action Plan per la Libia. Nel documento si stanziavano 45 milioni di euro alla voce “Supporto per la gestione integrata dei confini e dell’immigrazione in Libia - Seconda fase”. Responsabile della parte principale del piano – si legge – è il ministero dell’Interno italiano, che ha incassato dall’Ue gran parte del budget previsto, per un totale di 31 milioni di euro. L’obiettivo è la formazione e il sostegno della Guardia costiera libica, il mantenimento della sua flotta e la creazione di un Mrcc, cioè di un centro di coordinamento delle operazioni di salvataggio (che in realtà, secondo le migliori previsioni, non sarà operativo prima del 2020). E così, l’estate scorsa, l’Italia ha ceduto alle milizie libiche 12 motovedette a titolo gratuito: 10 “Classe 500” della Guardia costiera e 2 della “Classe Corrubia” della Guardia di Finanza, più una somma pari a circa 1,5 milioni di euro per la loro manutenzione. Altri 600 mila euro sono stati previsti per l’addestramento degli equipaggi, da svolgere in Italia. A dicembre 2018, le nostre Forze armate avevamo addestrato 39 membri della Guardia costiera libica. Sulla carta tutto bene, ma i risultati operativi – dall’efficacia delle operazioni di salvataggio alla tutela dei diritti umani dei migranti intercettati – continuano a rivelarsi insufficienti. Un servizio di “Piazza Pulita”, andato in onda giovedì, ha confermato che i risultati dell’addestramento dei libici sono al momento inesistenti e che il controllo del traffico di esseri umani resta nelle mani delle milizie. “Se il pattugliamento è previsto dalle 7 alle 14, un informatore avverte il trafficante. Allora il barcone quel giorno partirà alle 15”, spiegano due libici che si trovano a La Spezia per concludere il loro corso di formazione. E ancora: “I migranti per la verità li incrociamo per caso, durante la navigazione”. E poi: “I salvataggi? Noi gettiamo i salvagenti in acqua. Il primo che arriva si salva”.
Ma cos’altro ha offerto l’Italia alla cosiddetta Guardia costiera di Tripoli? Soprattutto informazioni e dati, ed è qui che si arriva in una delle zone d’ombra della nostra cooperazione con Tripoli. Seahorse Mediterranean è il nome di un progetto dell’Ue per la condivisione di dati tra i paesi del Mediterraneo. Finora ne fanno parte Italia, Spagna, Francia, Portogallo, Cipro, Malta e Grecia ma da qualche tempo l’obiettivo è di coinvolgere anche la Libia. Si tratta di un progetto regionale che rientra in Eurosur, il sistema di sorveglianza delle frontiere terrestri e marittime dell’Ue, e coordinato da Frontex, l’agenzia europea che monitora le frontiere esterne. Buona parte del sistema di Seehorse consiste in una mappatura di quanto succede al confine meridionale dell’Ue grazie ai dati raccolti dal programma spaziale Copernico che invia segnali satellitari intercettando attività sospette alle frontiere. Un’eventuale partecipazione della Libia a Seahorse metterebbe a disposizione di Tripoli – uno stato fragile e vicino a una nuova guerra civile – una vasta quantità di dati sensibili. Dell’inserimento della Libia in questo piano si parla da anni e ancora oggi – incredibilmente – non è chiaro se ne faccia parte o meno. In una relazione del ministero dell’Interno del 2015 la Libia è citata tra i paesi membri di Seahorse ma nessun altro documento ufficiale, anche a livello europeo, ne fa menzione. Nella “Relazione sulla performance per il 2016” diffusa dal Viminale, si dice che “sei ufficiali della Guardia costiera-Marina militare libica” sono arrivati in Italia “con funzioni di collegamento con le autorità libiche per migliorare/stimolare la cooperazione nella gestione degli eventi di immigrazione irregolare provenienti dalla Libia” nell’ambito del progetto europeo. Interpellata dal Foglio, la Direzione centrale immigrazione e della Polizia delle Frontiere non ha ancora saputo confermare se effettivamente sia in corso una collaborazione coi libici per la condivisione dei database marittimi. Un altro paradosso è che gli unici a interessarsi dei rischi di una cooperazione coi libici siano stati i tedeschi, che non fanno parte di Seahorse. “Abbiamo chiesto noi al governo federale alcune informazioni sul piano di adesione di Tripoli. Anche perché eravamo preoccupati dal fatto che anche Frontex avesse dato il via libera”, dice al Foglio Matthias Monroe, consulente di un parlamentare della Linke, Andrej Hunko. “Condividere informazioni sensibili con un paese terzo ha delle criticità. Ma la risposta del nostro ministero degli Esteri è stata che si contava su un’adesione dei libici entro la fine del 2018”. A dicembre, anche le europarlamentari Sabine Lösing e Cornelia Ernst avevano sollevato le stesse perplessità a Bruxelles. Il commissario dell’Ue per l’Immigrazione, Dimitris Avramopoulos, aveva risposto che “la Guardia costiera libica è riconosciuta come una struttura affidabile del governo di Unità nazionale libico riconosciuto dalla comunità internazionale”. Secondo il commissario, “la Libia non fa ancora parte del network Seahorse” ma, ad ogni modo, “gli stati membri possono scambiare informazioni con paesi terzi nel quadro di network regionali”. Quindi per la Commissione non ci sono problemi di sicurezza e anche Frontex sembra essere dello stesso avviso. Nel suo Rapporto annuale riferito al 2018, Fabrice Leggeri, il direttore dell’agenzia, aveva scritto: “Una possibile revisione del regolamento su Eurosur dovrebbe spiegare in quali circostanze e condizioni Frontex sia espressamente autorizzata a condividere gli avvistamenti marittimi con i paesi terzi confinanti per scopi sar”.
La richiesta di Leggeri intendeva solo formalizzare quello che, di fatto, succede già quotidianamente. Col ritiro delle unità navali dalla missione Sophia, l’Ue si limita ora a osservare il Mediterraneo dall’alto con droni e aerei da ricognizione, segnalando ai libici eventuali barconi in mare (sempre che qualcuno a Tripoli risponda al telefono). Nella revisione del programma Eurosur – approvata dall’Europarlamento e che aspetta solo il via libera del Consiglio – le richieste di Leggeri sembra siano state recepite. In futuro, Frontex si potrà dotare di uno staff molto nutrito – 10mila uomini – da dispiegare anche nei paesi terzi allo scopo di coordinare le attività di sorveglianza e condivisione delle informazioni. Anche con la Libia.
Sia i salvataggi in mare, che hanno dimostrato tutta l’inadeguatezza della Guardia costiera libica anche per i maltrattamenti riservati ai migranti riportati a terra, sia la ripresa dei combattimenti a Tripoli, hanno finito per confermare quanto previsto dalla stessa Ue lo scorso dicembre. Nella tabella “Rischi e ipotesi” allegata al piano d’azione della cooperazione con la Libia, gli esperti avevano preso in considerazione entrambe le eventualità. “I rischi di una maggiore instabilità politica nella regione e di possibili cambi di governo” erano considerati di rischio “medio-alto”. Ma soprattutto, l’Ue aveva messo le mani avanti sulla fattibilità del progetto di formazione della Guardia costiera libica da parte italiana: “Se il trattamento dei migranti, in particolare gli interventi sar, non miglioreranno secondo gli standard dei diritti umani, la reputazione dell’Ue ne uscirà ulteriormente danneggiata”, avvertiva Bruxelles. Il rischio di questa ipotesi era classificato come “elevato”. E oggi i risultati stanno confermando un fallimento annunciato.