Il partito di Poroshenko tra stadi, video bellicosi e guerre di polli
Il fine settimana intenso dell’attuale presidente dell’Ucraina. Tra incontri con Merkel e Macron e dibattiti diventati comizi
Roma. Che qualcosa in lui stesse cambiando lo avevamo intuito qualche mese fa. Prima la mimetica durante la crisi del Mare d’Azov, quando la Russia aveva catturato tre navi ucraine che cercavano di attraversare lo stretto di Kerch. Lo avevamo intuito dalla legge marziale che aveva fatto approvare in Parlamento dopo intense discussioni che già erano parte di una campagna elettorale tesa. Lo avevamo notato dalla posa vanitosa in quella foto che il presidente ucraino si è fatto scattare a Costantinopoli mentre veniva sancita l’indipendenza della chiesa di Kiev dal patriarcato di Mosca. E per avere la certezza che tutto in lui fosse cambiato abbiamo dovuto attendere fino a domenica scorsa quando Petro Poroshenko si è presentato allo stadio olimpico di Kiev. Doveva essere un dibattito tra lui e il suo sfidante Volodymyr Zelenski, il comico arrivato assieme a lui al ballottaggio del 21 aprile. Ma Zelenski non si è presentato – o per lo meno questa è la versione di Poroshenko, l’attore sostiene che la data era stata fissata per il 19 –, e il dibattito è diventato un comizio. Un bagno di folla, gli spalti pieni, le bandiere gialle e blu, Poroshenko che arringava la folla con le sue parole d’ordine: esercito, lingua, fede. Alla fine ha anche intonato una canzone popolare da dedicare allo sfidante che parla di una ragazza che non si presenta all’appuntamento. A proporre il dibattito nello stadio era stato Zelenski, che aveva anche costretto il presidente a farsi in diretta televisiva le analisi del sangue per dimostrare che non facesse uso di droghe o di alcol. Zelenski smanicato che porgeva il braccio sorridendo disinvolto davanti alla telecamera, Poroshenko ingessato, guardingo. Il presidente stanco di lasciar condurre la campagna elettorale al rivale, irritato dai colpi di scena, ha deciso di combattere in un modo più aggressivo, ha abbandonato i toni pacati e se ne è uscito con un video in cui un camion investe Zelenski e il corpo investito si trasforma in cocaina. “Ognuno ha la sua strada”, si legge alla fine.
Poroshenko ha tentato di attirare l’attenzione ricorrendo a un linguaggio non suo, dimenticando che ciò che gli dava forza rispetto ai suoi rivali era quell’idea di sicurezza, quella totale mancanza di novità e di colpi di scena che in realtà piace ai suoi alleati internazionali. Venerdì scorso è stata una giornata di incontri, da Kiev a Parigi, da Parigi a Berlino, il presidente dell’Ucraina ha incontrato prima Emmanuel Macron, poi Angela Merkel. Tutto in un giorno per poi tornare a casa e preparare il dibattito.
Da Macron è volato anche Zelenski che però non ha incontrato la cancelliera tedesca che vede in Poroshenko un leader più affidabile con cui mantenere il tremolante Normandy Format, il gruppo di paesi (Francia, Germania, Ucraina e Russia) che cercano una soluzione al conflitto del Donbass che va avanti dal 2014. I sondaggi danno Zelensky al 51 per cento e Poroshenko al 21, per l’elettorato il cambiamento sembra essere più importante della stabilità. Tutti e due i candidati hanno detto che sarà necessario un referendum per chiedere agli ucraini il loro parere per l’ingresso nella Nato e nell’Unione europea con la quale ora va avanti una piccola battaglia che non ha che vedere con la guerra, i confini, la corruzione o i diritti umani. Ha a che fare con i polli. L’Ucraina infatti è una delle maggiori esportatrici di pollame e l’Ue per tutelare i propri allevatori ha dato a Kiev la possibilità di esportare le parti dell’animale ma con l’osso, pensando così di impedire l’export di petto di pollo, la parte più costosa e pregiata. Yuri Kosiuk, uno dei maggiori produttori di pollame, ha fatto in fretta a trovare il modo di esportare petti a tariffe agevolate: basta mandarli con tutto l’osso. Il tranello è stato scoperto e diversi paesi con l’Austria in testa vogliono trovare il modo di limitarlo. La strada per l’Unione è ancora lunga e a chiunque vinca il 21 aprile, non basterà un referendum per avvicinare un po’ di più Kiev a Bruxelles.