L'Algeria ora sa che la via per la democrazia non passa per un voto iniquo
“Voi volete la violenza, noi abbiamo la pazienza”. Ad Algeri la piazza scopre l’arma più efficace contro il regime
Foto di Rolla Scolari
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Algeri. Funziona un po’ come quando si cucina una zuppa, dice la signora: più la si cuoce a fuoco lento e più risalta il gusto. E’ il nono venerdì di protesta in Algeria, e Aldja Abdesselam è alla sua ottava manifestazione. Tiene per mano la figlia Malika, 19 anni. Sono venute, un gruppo di sole donne, dalla vicina Boumerdès. E dicono di non avere fretta. “La strada è la nostra scuola, questo non è tempo perduto: stiamo scoprendo nuovi volti, nuovi gruppi”.
Occorre imparare “a conoscerci, parlare, dibattere – dice la signora – La fretta rischierebbe di riportarci l’antico regime”. Lunghe settimane di manifestazioni oceaniche e pacifiche in tutto il paese hanno dato un risultato inedito: non soltanto l’uscita di scena di un presidente, Abdelaziz Bouteflika, al potere da vent’anni, ma con il passare dei giorni e l’ampliarsi del dissenso anche le dimissioni di altre figure centrali del “pouvoir” come, pochi giorni fa, il presidente del Consiglio costituzionale Tayeb Belaiz.
Alla piazza, però, questo non basta ancora. Dopo il passo indietro di Bouteflika, la proposta in arrivo dalla leadership, con il sostegno dell’esercito e del potente generale Ahmed Gaid Salah, è quella di una breve transizione che porti a un voto il 4 luglio, come previsto dalla Costituzione in caso di impedimento o rimozione del rais. Gli algerini che hanno scelto la piazza, però, non hanno premura. La protesta diventa con il passare del tempo uno strumento per rivitalizzare una società civile anestetizzata da decenni di regime. Il movimento – hirak in arabo – resta senza una leadership chiara, e per ora non sembra cercarla.
Il timore delle cancellerie e degli osservatori stranieri è che il protrarsi delle manifestazioni possa degenerare in violenza, perché è quello che raccontano i travagli della vicina Libia, dell’Egitto e della Siria. Attivisti, militanti di vecchia e nuova data non amano i paragoni tra la loro protesta e le primavere arabe, eppure non negano come il recente passato regionale sia servito da lezione. La Tunisia del 2011 è corsa troppo velocemente verso un’assemblea costituente, l’Egitto verso elezioni che i gruppi giovanili della piazza non avevano possibilità di vincere contro rivali organizzati da decenni sul territorio come il partito dell’ex rais Hosni Mubarak e la fitta rete islamista dei Fratelli musulmani.
La protesta algerina inizia a formulare una road map, ci dice Mostefa Bouchachi, 65 anni, avvocato per i diritti umani ed ex deputato, che piace alla piazza ed è diventato una specie di suo portavoce. Il suo polveroso studio è proprio su un viale del centro, cuore delle proteste. Il primo passo, spiega, sarebbe la rimozione delle figure simbolo del potere, poi la creazione di una presidenza collegiale, una specie di triumvirato della durata di un anno, che nominerà un premier cui sarà affidata la formazione di un governo in concerto con la società civile. “Il periodo di transizione aprirà lo spazio pubblico e darà la possibilità ai giovani del movimento di organizzarsi in associazioni e partiti politici”, senza fretta. Ci vogliono tempo e pazienza per costruire la democrazia: “Voi volete la violenza, noi abbiamo la pazienza”, è il messaggio sul cartello di un ragazzo – giacca in pelle, ciuffo laccato e occhiali da sole – nel centro di Algeri in piena manifestazione. “E’ l’ultimo paradosso di questa nuova Algeria che scopre che per andare verso la democrazia occorre prima rifiutare di andare a un’elezione non equa”, ha scritto il giornalista algerino Abed Charef. E così la contestazione continua, e rifiuta la transizione gestita dal regime.
Dalla capitale ai più remoti angoli del paese il venerdì è ormai un giorno collettivo di dissenso, confronto, e di creazione di una coscienza politica e civica. La protesta si concede tempo per non farsi strappare i risultati ottenuti, ma anche per studiare, dibattere, confrontarsi, come hanno fatto giovedì, in un piccolo appartamento del centro di Algeri, anche i partecipanti a una conferenza sui pro e contro di un’assemblea costituente, organizzata dall’Osservatorio dei cittadini algerini, associazione che esiste da anni, e di cui fa parte Sabrina Rahmani, attivista di vecchia data, che spiega: “Non siamo stati organizzati per decenni, perché il regime ha piallato la vita politica e associativa del paese. Passare attraverso una transizione darà il tempo alla società civile di organizzarsi”.