Abdel Fattah al Sisi (foto LaPresse)

Così l'autoritarismo di Sisi ha superato persino quello di Mubarak

Rolla Scolari

Con la vittoria al referendum costituzionale, il generale potrebbe restare alla guida dell'Egitto fino al 2030. I sogni della rivoluzione del 2011 sono ormai un lontano ricordo, tra purghe e censure di regime

Mentre l’Algeria dopo settimane di protesta ha costretto alle dimissioni un leader al potere da 20 anni, e l’anziano ed eletto presidente tunisino ha annunciato che non cercherà un secondo mandato, gli egiziani hanno appena approvato emendamenti costituzionali che permetteranno al rais Abdel Fattah al Sisi di restare a palazzo fino al 2030.

 

 

Il referendum che si è chiuso lunedì in Egitto è un colpo profondo alle aspirazioni democratiche e ai risultati ottenuti dalla piazza rivoluzionaria del 2011. Secondo i dati dell’agenzia elettorale nazionale, l’89 per cento degli elettori ha approvato gli emendamenti, e l’afflusso alle urne è stato del 44 per cento circa. Con questi numeri a disposizione, l’ex generale Sisi cancella – con l’arma di un presunto sostegno istituzionale e popolare – la promessa fatta nel 2017 di non estendere il proprio mandato dopo il voto presidenziale dell’anno scorso. In seguito a una campagna da cui il regime ha eliminato in anticipo tutti i candidati credibili attraverso incarcerazioni e l’arma della burocrazia, il rais è stato rieletto nel 2018 con il 97 per cento delle preferenze. Il referendum dei giorni scorsi permetterà ora al leader non soltanto di estendere il suo attuale mandato da quattro a sei anni, ma di ripresentarsi alle elezioni del 2024 e rimanere alla testa del paese fino al 2030. Gli emendamenti estendono la sua presa anche su Parlamento e magistratura. 

 

Il militare Sisi siede a palazzo dal 2013, da quando, sull’onda di proteste popolari di massa contro il presidente eletto Mohammed Morsi, leader dei Fratelli musulmani, l’esercito ha guidato la deposizione dell'ex rais con quello che rifiuta di chiamare un colpo di stato. Il regime glorifica ancora oggi “una seconda rivoluzione”, ma per gli attivisti di piazza Tahrir quel 2013 è stato l’inizio non soltanto di una decisa controrivoluzione, ma di una estesa repressione. Migliaia di arresti arbitrari, una censura sugli organi di informazione legati all’opposizione, il divieto di manifestazione sono giustificati oggi dal regime di Sisi con la necessità della lotta al terrorismo, la minaccia islamista e il mantenimento della stabilità nazionale. Secondo i dati del Cairo Institute for Human Rights Studies riportati pochi giorni fa dal Washington Post, sarebbero almeno 60mila oggi le persone in prigione per motivi politici. 

  

Per gli osservatori, il presidente Sisi non ha soltanto affossato il risultati del 2011, ma ha addirittura portato l’Egitto in una situazione peggiore rispetto all’èra del suo predecessore. Sotto Hosni Mubarak, nonostante la repressione politica fosse costante e pervasiva, le opposizioni avevano uno spazio di manovra e dall’inizio degli anni 2000 la stampa aveva visto una crescente indipendenza. “Sisi, 64 anni, sta costruendo un tipo di autoritarismo che non soltanto ha demolito i risultati democratici della rivolta del 2011 – ha scritto il New York Times –, ma ha sorpassato l’autocrazia di Hosni Mubarak, il leader egiziano caduto durante la rivoluzione”.

 

Contrariamente all’ultimo voto presidenziale, quello che resta dell’opposizione egiziana non ha chiamato al boicottaggio del referendum nei giorni scorsi, ma a scrivere “no” sulla scheda elettorale. Gli egiziani hanno avuto pochissimo tempo per prepararsi a un voto già scritto: il Parlamento ha infatti approvato gli emendamenti proposti soltanto pochi giorni prima del referendum, esteso tra sabato e lunedì: il regime mirava a un alto afflusso per rafforzare la credibilità istituzionale del processo. In realtà, secondo molto testimoni, nonostante la campagna di affissioni e le pubblicità televisive in favore del “sì”, nonostante gli autobus gratis nei quartieri e nelle aree popolari per portare i cittadini a votare, davanti ai seggi non si sono formate le code entusiaste delle votazioni e del referendum costituzionale post-rivoluzionario, quando in Egitto si respirava un’aria di cambiamento. Secondo i dati del gruppo di monitoraggio della censura NetBlocks riportati da uno degli ultimi siti indipendenti in Egitto, Mada Masr, nei giorni prima del voto sarebbero stati bloccati 34mila portali legati all’opposizione e a una campagna “Batel”, che in arabo significa nullo, invalido, che ha raccolto 250mila firme contro gli emendamenti.

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