Trump ci sta contro in Libia
Il presidente americano scommette con i suoi alleati del Golfo sul generale Haftar e sulla presa di Tripoli. Tanto gli effetti di una guerra civile li pagherebbe l’Italia
Non abbiamo ancora realizzato la potenza del calcio che il presidente americano Donald Trump ha dato al governo italiano sulla questione Libia. Lunedì 15 aprile Trump ha fatto una telefonata di sostegno al generale Khalifa Haftar, che comanda le forze di Bengasi e che il 4 aprile ha dato l’ordine di conquistare la capitale della Libia, Tripoli, controllata dal rivale Fayez al Serraj. Nel riassunto della telefonata diffuso dalla Casa Bianca si legge che il presidente americano ha chiamato l’altro americano (Haftar ha vissuto per vent’anni in Virginia, ha il passaporto americano oltre a quello libico) per discutere “the ongoing counterterrorism efforts”. L’operazione antiterrorismo in corso. Ma l’operazione antiterrorismo in corso è l’assalto contro quello stesso governo di Tripoli che l’Italia sponsorizza da tre anni. Quando l’anno scorso è nato il governo gialloverde, il primo viaggio all’estero del ministro Matteo Salvini fu un volo a Tripoli per assicurare il governo libico di Serraj che ci sarebbe stata continuità di linea politica. Come vi avevano sostenuto i governi precedenti, era il messaggio di Salvini, così vi sosteniamo noi perché abbiamo interessi in comune che vanno dall’energia alla sicurezza al controllo della costa da dove partono i barconi.
Forse “my friend Giusepi” non sapeva, quando mercoledì parlava con Trump, che lunedì Trump e Haftar si erano già sentiti
Questo voltafaccia americano è ancora più doloroso se si considera che Trump è un mito del governo gialloverde. Salvini e Di Maio competono per accreditarsi alla Casa Bianca e sognano una foto con il presidente icona dei populisti (Salvini ne ha già una, ma fu scattata al volo come se lui fosse un fan qualsiasi e non è ufficiale) e il premier Conte è stato definito dai giornali americani “the Italian cheerleader of Trump”. My friend Giusepi, come lo chiamò Trump durante l’incontro del luglio 2018 alla Casa Bianca in cui il presidente americano delegò all’Italia la gestione del dossier Libia. Fu un’investitura importante, per qualche attimo sembrò che l’Italia grazie all’appoggio americano potesse essere il protagonista principale fra tutti i governi stranieri che si occupano di Tripoli, dalla Francia al Qatar alla Turchia all’Arabia Saudita. Non sarebbe stata una scelta cattiva, dopotutto siamo quelli che hanno molto da guadagnare da una Libia stabile e siamo anche quelli che tutti i giorni prestano le basi ai ricognitori e ai droni americani che sorvolano il paese africano. Ma quell’investitura è già stata dimenticata. Mercoledì 17 aprile Conte ha telefonato a Trump per sollecitare una dichiarazione americana di altissimo livello che mettesse fine alla guerra civile e che indirizzasse tutti “verso una soluzione politica”, e due giorni dopo è venuta fuori la notizia della telefonata fra Trump e Haftar del 15 aprile. Il che fa sospettare che my friend Giusepi fosse all’oscuro, mentre di mercoledì parlava con Trump, che lunedì Trump e Haftar si erano già sentiti e che il presidente americano aveva detto al generale di avere la stessa “shared vision” per il futuro.
Trump potrebbe avere deciso di imporre un uomo forte come estensione geografica e ideologica di altri uomini forti che già favorisce
Da anni il governo italiano cercava di portare le due metà della Libia – da una parte Serraj a Tripoli e dall’altra Haftar a Bengasi – in una stessa stanza per negoziare la riunificazione pacifica del paese. L’idea di fondo è che presto o tardi i due dovrebbero mettere da parte le ostilità, spartirsi i posti di potere e i soldi del petrolio in quote più o meno soddisfacenti per entrambi e cominciare a lavorare sulla stabilità. Soprattutto, l’idea di fondo era che Serraj e Haftar avrebbero dovuto a tutti i costi evitare una guerra civile, perché nessuna delle due parti è abbastanza forte da prevalere in fretta sull’altra e quindi si sa come finisce in questi casi: combattimenti prolungati, città distrutte, milizie, atrocità, profughi in fuga verso l’Europa, terroristi liberi di fare quello che vogliono. Un disastro.
Per evitare questo disastro a novembre il premier Giuseppe Conte invita Trump, Putin e altri capi di stato a una conferenza di pace a Palermo per spingere i due leader libici verso una svolta, ma i grandi capi di stato non si presentano intuendo che l’incontro sarà un flop. Haftar arriva in ritardo, fa sapere che lui è fisicamente lì ma che non partecipa alla conferenza e poi si lascia fotografare assieme a Conte e Serraj come una rockstar che concede un contentino. Il premier italiano annuncia che il 2019 per la Libia sarà “l’anno della svolta” – e quello che succede in questi giorni dimostra che si trattava come già successo anche in altri settori di un’esibizione molto avventata di ottimismo.
Haftar vede il futuro così: vittoria contro i nemici di Tripoli, Serraj in arresto – ha già dato l’ordine – e lui come unico leader
All’Italia resta da sperare che la telefonata di Trump con Haftar appartenga alla categorie delle posizioni incompiute del presidente americano – come tante altre cose. Il ritiro dei duemila soldati americani dalla Siria che doveva finire entro gennaio non è ancora cominciato, sebbene Trump lo avesse molto pubblicizzato. Il segretario di stato, Mike Pompeo, aveva condannato l’avanzata di Haftar verso Tripoli, prima di essere sconfessato dal suo presidente. Il senatore repubblicano Lindsey Graham, che è il consigliere non ufficiale di Trump per la politica estera e che tanto si è speso per annullare o almeno rallentare il ritiro dalla Siria ancora infestata dallo Stato islamico, ha chiamato Trump per cercare di correggere la rotta. “Dobbiamo rinforzare il messaggio che non possiamo parteggiare per l’uno o per l’altro gruppo e che respingiamo l’uso della forza militare come soluzione ai problemi libici”, ha detto. “Per me è impossibile che Haftar o chiunque altro diventi un leader legittimo con l’uso della forza. E’ impossibile che riesca a controllare Tripoli e il paese se prenderà la capitale con la forza. Ci sarà un’ondata di profughi in caso di escalation della guerra, sarà un incubo per la Tunisia e per tutta la regione”.
Il consigliere di Trump: “Dobbiamo rafforzare il messaggio che non possiamo parteggiare per l’uno o per l’altro gruppo”
Digressione finale sui gruppi estremisti e lo Stato islamico e la necessità di fare presto. Haftar nelle battaglie a Bengasi e a Derna si è fatto molti nemici nell’assortimento di gruppi jihadisti che infesta la Libia, migliaia di uomini che sono pronti a riprendere le armi non per difendere Serraj – di cui non gli importa nulla, potrebbero ucciderlo domani stesso – ma per prendersi una rivincita contro il generale. Nel cosiddetto “Esercito nazionale libico” ci sono molti battaglioni salafiti, ma sono salafiti che pur ossessionati dall’imposizione della sharia credono nell’obbedienza all’uomo forte. I gruppi jihadisti potrebbero presto unirsi alle forze che difendono Tripoli e a quel punto la campagna farlocca “antiterrorismo” di Haftar comincerebbe ad assomigliare a una profezia che si autoavvera. Lo Stato islamico in Libia non ha fatto nulla a gennaio, febbraio e marzo. Ma da quando è cominciata la guerra civile ha già attaccato tre volte le milizie di Haftar nel resto del paese e di fatto si sta infiltrando nella guerra. Se non si fa presto, c’è il rischio che il governo di Tripoli si trovi con dei terribili compagni di fronte – e quindi che pur restando forte dal punto di vista militare diventi debolissimo dal punto di vista politico.
Cose dai nostri schermi