Abbattere l'establishment
Il biopic di Ocasio-Cortez, lacrime, rabbia e la guerra dei dems americani
Milano. “Il potere là fuori è un’illusione”, dice Alexandria Ocasio-Cortez in “Knock Down the House”, e per potere intende l’establishment, i deputati al Congresso che non sono mai stati sfidati e vivono placidi sulla loro rendita di posizione, Joe Biden, l’ex vicepresidente che si candida oggi per le presidenziali del 2020, i privilegi che molti detestano ma non osano toccare, le élite, il sistema. Il potere là fuori è un’illusione, dice Ocasio-Cortez nel documentario premiato al Sundance Festival che racconta la sua campagna elettorale per le primarie in vista delle elezioni di midterm dello scorso novembre, assieme a quella di altre tre candidate – su Netflix dal primo maggio con il titolo “Alla conquista del Congresso” – e contro questa illusione muove tutto, gambe, cuori, voti, per arrivare ad “abbattere” il Congresso e il suo potere. “Mi dicono che sono marxista – dice Amy Vilela, che era candidata in Nevada e ha perso – Non so nemmeno cosa sia un marxista. Comunista, socialista, sembri russa, torna nel tuo Messico, dicono qualsiasi cosa”, ma la sua battaglia è un’altra, è quella di Ocasio-Cortez e delle altre: il popolo che torna a essere rappresentato, il popolo che si riprende il suo sogno americano, e riscatta la figlia morta perché in ospedale non è stata accettata non avendo l’assicurazione sanitaria, riscatta un quartiere malato di cancro perché l’aria e l’acqua sono avvelenate dalle aziende di carbone, riscatta tutta la nazione al grido: “Non sono io che vengo eletta al Congresso, siamo noi. L’establishment è solo, noi siamo tanti”.
Le elezioni di midterm del 2018 non hanno soltanto riportato il Congresso in mano ai democratici, rendendo la vita più complicata per l’Amministrazione Trump, ma hanno anche aperto le porte a una battaglia culturale molto più profonda che si muove dentro le coordinate del popolo contro le élite – coordinate che abbiamo imparato a conoscere già da tempo anche in Europa – e che ha a che fare con la rappresentanza, il fulcro della democrazia. Chi sono i nostri rappresentanti, e soprattutto: ci rappresentano davvero? In “Knock Down the House” il progetto di sostituzione dei rappresentati è raccontato non soltanto dalle storie delle quattro candidate protagoniste – storie potenti di perdite, di sofferenze, di minacce, di voci che si rompono parlando in pubblico, di rabbia, tantissima rabbia, “I’m mad as hell”, dice Paula Jean Swearengin, candidata in West Virginia, pure lei sconfitta – ma anche dai suoi strateghi, i Justice Democrats e il Brand New Congress, due Pac progressisti formati per lo più da ex membri della campagna del 2016 di Bernie Sanders. La trasformazione del Partito democratico – perché oggi questa battaglia si gioca soltanto a sinistra, il Partito repubblicano ha già il suo rappresentante del popolo alla Casa Bianca, e anche se è ingestibile resta per i conservatori quasi intoccabile – è iniziata nel 2016, con l’outsider del Vermont che ha provato a sbattere fuori la rappresentante dell’establishment dalle primarie: non ce l’ha fatta allora, ma ha intuito di potercela fare poi, alle midterm, magari alle primarie per le presidenziali che iniziano formalmente l’anno prossimo ma sono già qui, con il loro feroce cannibalismo.
Le elezioni di metà mandato sono state il banco di prova: i Justice Democrats e molti altri gruppi affiliati hanno selezionato candidati alle primarie democratiche che potessero mettere in difficoltà i deputati incumbent, la struttura portante del Partito democratico, adagiata sulle sue sicurezze, fino a quel momento inconsapevole delle tante vulnerabilità. Il progetto non ha avuto un gran successo – di 79 candidati endorsati, 26 hanno vinto le primarie, sette sono arrivati al Congresso: Ocasio-Cortez è la storia, ma ci sono anche Ilhan Omar e Rashida Tlaib, per citare le più famose – ma “per una che ce la fa mille ci hanno provato”, ed è questo l’obiettivo: provarci, provarci in tantissimi, fino a che a farcela sarà un gruppo abbastanza consistente da cambiare i rappresentanti del popolo.
“Ci sarà una guerra dentro al partito, siamo qui per fare la nostra parte”, ha detto a Politico Waleed Shahid, portavoce dei Justice Democrats, definiti così: “Un gruppo che rappresenta un nuovo e impaziente spirito dentro al partito, una coalizione in stile Tea Party di cittadini risvegliati dalla palla di cannone che è stata la campagna di Sanders nel 2016 e uniti da politiche superprogressiste e da un disprezzo millennial per l’establishment”. La formula è solida: molti la liquidano con l’etichetta di “socialismo”, tanto utile pure ai repubblicani, ma è molto più imponente, va alle radici della democrazia rappresentativa, alla necessità di adattarsi a una realtà modificata e parla il linguaggio del rancore e del riscatto, “facciamo l’inferno e riprendiamoci le nostre vite”, per citare la Swearengin.
Già alla fine dell’estate del 2016, quando Sanders aveva perso ma Hillary Clinton non ancora, i Justice Democrats avevano cominciato a costruire una grande tenda per tutti i gruppi interessati al progetto: inizialmente, i toni erano ben più ambiziosi, si aspirava a trovare e arruolare 435 candidati per tentare una “sostituzione” il più possibile ampia dei membri del Congresso. In “Knock Down the House”, c’è il primo incontro con i membri selezionati e a spiegare la strategia è Saikat Chakrabarti, che oggi è il chief of staff di Ocasio-Cortez, ma nel 2016, quando lavorava a San Francisco, ha partecipato alla campagna di Sanders – in particolare alle “Bernstorms” – e alla fine, intravedendo il potenziale ancora inespresso di quel movimento, ha contribuito a fondare i Justice Democrats. Chakrabarti è il regista di questi “insurgents”, e il fatto che ora segua la star di questo esercito mostra come Ocasio-Cortez sia l’esperimento riuscito, da rafforzare e da replicare su una scala quanto più grande possibile. Il carburante è la grande preparazione, di cui Ocasio-Cortez è portavoce idolatrata: l’unica che ce l’ha fatta dei dodici candidati selezionati per le midterm direttamente dai Justice Democrats ha mostrato che il cambiamento dal basso non avviene se la passione, la rabbia, la storia personale, la gioventù sono animate dall’improvvisazione (i grillini per dire, che hanno tanto di questa retorica e di questa strategia, non hanno capito questo elemento fondamentale). Ocasio-Cortez è una storia di “over-performance”, di ogni dettaglio curato, di ogni possibile rischio calcolato.
L’establishment democratico ha il sangue ghiacciato: sta tentando in tutti i modi di impedire con cavilli e procedure l’opa di questi nuovi rappresentanti, cerca di riempire le primarie di tante voci contando su una sintesi che annichilisca l’offensiva interna – Biden è nelle proiezioni odierne molto in vantaggio rispetto agli altri – e usa ogni strumento, che sia la minaccia o la persuasione, per difendersi: Nancy Pelosi, speaker della Camera, è la madrina di questo arroccamento. Ma i Justice Democrats hanno dalla loro parte non soltanto la demografia e idee che oggi sono istintivamente più popolari del moderatismo chirurgico dei centristi: hanno anche l’assenza di paura. Se in questo scontro si disintegra il Partito democratico, a loro non importa. Anzi, è proprio questa l’idea.