L'economia può salvare la Spagna dall'instabilità della politica
Occupazione record (con qualche chiaroscuro) e pil in crescita mentre i leader si dividono e i sondaggi per le elezioni di domenica dicono: ingovernabilità
Milano. In Spagna, a tre giorni dalle elezioni più incerte degli ultimi anni, tutto pare instabile. La possibilità stessa di formare un governo è la prima a traballare, visto che i sondaggi sostengono che nessuna coalizione – né quella a sinistra tra socialisti e Podemos, né quella a destra tra popolari, Ciudadanos e Vox – riuscirà a raggiungere la maggioranza dei seggi nel Parlamento di Madrid. Traballano certe sicurezze che la Spagna democratica aveva cominciato a dare per assodate, come la leggenda in base alla quale nel paese non esiste una destra estrema: esiste e mercoledì Santiago Abascal, leader di Vox, ha riempito un palazzetto a Siviglia come non succedeva da anni a nessun altro partito. Traballano le alleanze dentro a coalizioni che sembravano solide: ieri Pablo Casado, che è il giovane (38 anni) leader del Partito popolare, ha rilasciato un’intervista al Mundo in cui dice che Albert Rivera, l’altrettanto giovane (39 anni) leader di Ciudadanos, è “inaffidabile” e che non vede l’ora di fare patti con le sinistre, dopo che Ciudadanos ha rubato al Partito popolare un candidato di punta (anche le liste elettorali sono instabili a pochi giorni dal voto, sì).
Davanti alla fragilità della politica, c’è solo una realtà solida a cui la Spagna ancora può aggrapparsi: l’economia. Ieri l’istituto nazionale di statistica ha certificato che nel corso dell’ultimo anno la Spagna ha creato 600 mila nuovi posti di lavoro, che è la cifra più alta dal 2007. I dati sono un po’ chiaroscurati, perché contestualmente il tasso di disoccupazione è salito di un decimale e mezzo (14,7 per cento) a causa di alcune congiunture sfavorevoli, come una Settimana santa molto avanti nel calendario – la Semana santa è un volano importante per l’occupazione. Ma la Spagna è una delle locomotive di crescita dell’Europa, e dunque bisogna cominciare a chiedersi: sarà l’economia a salvare la fragile politica spagnola?
Chi conosce la situazione della Spagna sa che è già così da qualche anno. E’ dal 2015, infatti, che il paese non ha una maggioranza solida. Le elezioni di quell’anno non diedero origine a nessun governo, e il popolare Mariano Rajoy rimase al governo facente funzioni per sei mesi prima di decidersi a indire elezioni anticipate. Rajoy migliorò il suo risultato, ma riuscì a malapena a formare un governo di minoranza, che per due anni è rimasto quasi paralizzato: i provvedimenti di legge approvati in quel periodo si contano sulle dita di una mano. L’anno scorso Rajoy è stato disarcionato dal socialista Pedro Sánchez, che tuttavia non ha goduto di una maggioranza stabile. Anche l’attività legislativa del governo socialista è stata quanto meno limitata, prima che nuove manovre di palazzo costringessero Sánchez a indire di nuovo elezioni anticipate, quelle che si celebreranno domenica (è la seconda volta nella medesima legislatura, situazione quasi italiana). Se i sondaggi sono corretti, altri mesi di ingovernabilità e instabilità politica attendono la Spagna. L’Economist ha scritto di recente che il risultato più probabile di queste elezioni saranno nuove elezioni.
In questi anni in cui la politica è stata vacante, l’economia spagnola ha fatto un record via l’altro. Dal 2014 a oggi il tasso di disoccupazione è passato dal 25,9 per cento al 14,7 per cento, mentre dal 2015 a oggi il pil è sempre cresciuto a tassi superiori al 3 per cento l’anno. Il merito è in parte di Mariano Rajoy, che fece riforme sofferte ma fondamentali tra il 2011 e il 2014, quando il governo conservatore godeva di una maggioranza solidissima, ma non solo. Il partito del pil spagnolo, per esempio, è stato fondamentale anche nel disinnescare la crisi catalana. Quando, all’indomani del referendum dell’ottobre 2017 sull’indipendenza, per un momento sembrò che la Spagna si stesse per spezzare in tanti pezzi, decine di aziende e multinazionali annunciarono o minacciarono che sarebbero fuggite da Barcellona in caso di secessione. La prospettiva di una colossale perdita di entrate raffreddò gli entusiasmi dell’establishment catalano, che fino a quel momento era stato infatuato dall’idea dell’indipendenza. La questione catalana non è certo risolta, e anzi ancora negli ultimi giorni è stata una delle ragioni principali di dissenso tra i candidati, ma alla fine del 2017 il partito del pil consentì alla Spagna di superare il picco della crisi ancora tutta intera.
Verrebbe da pensare, dunque, che il miglior governo per la Spagna sia nessun governo. E’ molto probabile che questo sarà il risultato, ma bisogna capire fino a quando il partito del pil riuscirà a mantenere la sua efficacia e il suo effetto di stabilizzazione sul paese. I risultati delle riforme approvate negli scorsi anni potrebbero presto venire meno, e allora ci sarà bisogno che la politica torni a prendere decisioni gravi. Nessuno dei candidati oggi in corsa sembra pronto.
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