Quanto è sopravvalutato Orbán
Il premier ungherese ha un peso specifico basso e una dipendenza dall’Ue alta
Milano. L’Ungheria ha celebrato i suoi primi quindici anni di appartenenza all’Unione europea, quel primo maggio del 2004 quando dieci paesi – cento milioni di persone – si sono uniti al progetto europeo: i giornali ungheresi si sono riempiti di commenti e di analisi e di ricordi, ma a stabilire il tono è stato Zoltán Kovács, l’ineffabile portavoce del premier Viktor Orbán, su Twitter: “L’Ungheria si unì all’Ue per ritornare nella casa che le spetta dentro alla famiglia europea delle nazioni democratiche, per proteggere la nostra indipendenza e la nostra libertà – la libertà di decidere da soli delle cose che per noi sono più importanti”.
Eccola, l’Europa dell’orbanismo, utile per i sussidi e la stabilità economica, un bancomat e niente più, perché come ha detto Orbán nell’intervista pubblicata due giorni fa sulla Stampa, “oggi sono i democratici liberali i veri nemici della libertà. Essendo io un sostenitore della libertà devo essere illiberale”. Difficile strapazzare tanto il termine “libertà”, il valore “libertà”, ma il premier ungherese è abile in questo campo, prende le parole e le rovescia, prende l’Europa unita e ne fa tre, una per chi ha l’euro, una per chi è dentro Schengen e una del mercato unico, ed è quest’ultima quella da salvaguardare: a unirci è il commercio, sul resto ognuno per sé. Orbán è pratico con la retorica, è riuscito a togliere la parola “rifugiati” dal discorso pubblico ungherese, ci sono soltanto “migranti” e non sono mai dei bambini, perché l’immigrazione è solo una crisi, un problema, un guaio, non può avere i piedi feriti di chi ha camminato giorni per scappare dalla guerra e nemmeno gli occhi spaventati di un minore che fugge da solo.
Ieri Orbán ha accolto Matteo Salvini a Röszke, paese di tremila anime sul valico di confine con la Serbia, che nel 2015 era un punto di ingresso per i rifugiati: ora c’è una barriera lunga 175 chilometri, “in Ue si entra soltanto con il permesso”, ha tuittato Salvini assieme a foto di carezze a cani lupo e binocoli per controllare quel che succede di là dal muro. L’immigrazione è un collante retorico potente, anche se lo stesso Orbán dimentica con grande facilità che la decisione di Angela Merkel di aprire le porte nel 2015 agli immigrati fu prima di tutto un gesto di solidarietà all’Ungheria, dove c’erano 400 mila rifugiati nell’agosto di quell’anno. Ma la memoria è corta, l’influenza percepita di Orbán cresce e fa credere che possa esistere un ponte tra la sua famiglia europea, il Ppe, e l’alleanza sovranista che sta costruendo Salvini. Ma questa influenza è fortemente esagerata.
Il partito del premier ungherese ha dodici eurodeputati, secondo le proiezioni arriverà a tredici (sui 180 assegnati al Ppe), e per di più è già stato sospeso dal Ppe, per volontà di molti altri partiti della sua stessa famiglia. Orbán avrebbe potuto sbattere la porta e andarsene, in nome dell’indipendenza che farcisce la sua retorica, ma si è guardato bene dal farlo, perché non gli conviene: la libertà di decidere da soli si ha soltanto stando seduti nel partito più grande del Parlamento europeo, accedendo ai contributi imprescindibili per il budget del paese. Fuori di lì si rischia di contare poco, e comunque anche dentro Orbán è piccino. Per di più l’eventuale alleanza con l’Italia di Salvini sarebbe invero complicata dal punto di vista pratico: Orbán definisce “morto” il trattato di Dublino, ma in questo decesso a farne le spese maggiori è stata l’Italia che non può mettere un filo spinato alle sue frontiere e sarebbe anzi il primo paese a godere della solidarietà altrui, in termini di accoglienza e di riallocazione. E l’obiettivo comune di “non far partire nessuno” non è praticabile, non certo se a guidare la propria idea del mondo è l’interesse nazionale e non quello collettivo, che richiederebbe una strategia per i paesi da cui scappano i rifugiati.
Grazie ai fondi europei a cui contribuiscono anche gli italiani, l’Ungheria è il quarto paese dell’Ue nella lista dei beneficiari netti, con 3,1 miliardi di euro presi nel 2017 (al primo posto c’è la Polonia), ma molti esperti segnalano che i sussidi europei sono stati utilizzati per rafforzare gli uomini e la struttura di potere di Orbán, con un tasso di corruzione in continua crescita. Il premier ungherese è molto solido a livello nazionale, proietta un’immagine solida anche a livello internazionale, ma il suo peso relativo è basso, la sua dipendenza dalla generosità europea invece è alta.