I nostri sbagli in Libia
“Abbiamo abboccato allo schema francese, ignorato i paesi del Golfo e ci siamo resi ridicoli a Palermo”, dicono fonti diplomatiche
Roma. Per capire come mai l’Italia ha lentamente perso il suo ruolo in Libia si deve partire dalla Conferenza di Palermo, organizzata lo scorso 12 novembre. Il vertice era stato presentato dal governo gialloverde come un momento di svolta per risolvere l’intricata situazione nel paese nordafricano; sei mesi dopo, la Libia è in guerra, il generale Haftar è alle porte di Tripoli e sono già morte centinaia di civili. Secondo il quadro che ha ricostruito il Foglio grazie a delle conversazioni con diverse fonti diplomatiche, il vicolo cieco in cui si trova il governo Conte è frutto di due letture, entrambe sbagliate. La prima riguarda la situazione sul terreno in Libia e discende dal nostro rapporto con gli Stati Uniti. Pur non ritenendo la Libia una priorità, gli americani hanno sempre riconosciuto l’importanza che il paese riveste per l’Italia. I nostri governi, durante la seconda presidenza Obama, contavano sul volontarismo di John Kerry, segretario di stato, con cui Paolo Gentiloni poteva vantare un ottimo rapporto personale. L’attivismo americano ha aiutato l’Italia a mantenere un ruolo in Libia, e ha fatto sì che il nostro lavoro diplomatico avesse una spalla potente a livello internazionale, restando in un quadro multilaterale.
Quando è cambiata l’Amministrazione, gli Stati Uniti hanno lentamente mutato atteggiamento, facendo capire all’Italia che la leadership era ormai nelle sue mani. Il 28 agosto 2018, durante la visita a Washington di Giuseppe Conte, Donald Trump riconobbe il ruolo italiano in Nordafrica; fu effettivamente un bel colpo per il presidente del Consiglio.
Ma la leadership comporta oneri e onori: “Non si ha il coraggio di dirlo quando si tratta dei francesi, ma nessuno era entusiasta dei vertici organizzati in tutta fretta da Macron. Non lo eravamo noi, non lo erano gli americani né i britannici. In quella finestra temporale, tra il vertice francese del 19 maggio 2018 e quello italiano del 12 novembre 2018, in cui si inserisce la visita di Conte a Washington, noi avevamo un vantaggio”, ci dice un ex alto funzionario con un’ottima conoscenza del dossier.
Vantaggio sprecato. La linea francese è sempre stata ridurre la complessità del mosaico libico a un accordo bilaterale tra Serraj e Haftar. Così facendo, ragiona Parigi, è Haftar a uscire rafforzato. Tuttavia, la Tripolitania, la regione di Tripoli, non è un monolite: sono importanti le città costiere e i potentati locali. Con le mosse preparatorie al vertice di Palermo, e l’ansia di ottenere una foto tra Fayez al Serraj e Khalifa Haftar, abbiamo dunque implicitamente avallato un’idea francese. Quando gli americani hanno capito che Palermo era la riedizione dei vertici già organizzati da Macron, una photo opportunity seguita da dichiarazioni programmatiche assolutamente velleitarie, hanno deciso di starne alla larga. Tutto ciò che è successo dopo è conseguenza di queste scelte: Giuseppe Conte d’altronde ha dichiarato in questi giorni che il suo governo non sostiene né Haftar né Serraj, confermando ancora una volta che la lettura è quella di un accordo a due. Alla faccia della rivalità con Parigi.
La nostra ambasciata a Tripoli è ancora aperta, e continua a lavorare incessantemente, anche se abbiamo da sempre un problema di comprensione di quanto accade in Cirenaica, la parte del paese controllata da Haftar. Ciò è dovuto a circostanze storiche difficilmente colmabili. Tuttavia, aver deciso di lasciare l’ambasciata senza guida per più di cinque mesi, dal settembre del 2018 al febbraio 2019 (in piena preparazione del vertice di Palermo, tra l’altro), ha assottigliato ancor di più questa conoscenza: “Non abbiamo capito che l’offensiva di Haftar era imminente. Peggio ancora se lo sapevamo, perché non siamo riuscita a farlo desistere”, spiega un’alta fonte diplomatica. L’incapacità di gestire il generale Haftar è uno dei tanti tasti dolenti della strategia italiana, che a tratti rasenta la completa confusione: l’annuncio dell’apertura di un consolato a Bengasi, poi non concretizzato, era un modo per strizzare l’occhio a Haftar. Un modo di cambiare alleanze in corso d’opera. A che pro? Dice l’alta fonte diplomatica: “Con Palermo abbiamo scontentato tutti, e ci siamo resi ridicoli. Se Haftar dovesse imporsi per noi sarebbe un grosso problema: cambierebbe gli equilibri politici interni alla Libia. A Tripoli emiratini ed egiziani non entrano, anche i francesi hanno pochi contatti. Ma questo può cambiare”.
Aver dimenticato che intorno alla Libia si muovono tutte le potenze regionali è in effetti il secondo grave errore compiuto dal governo gialloverde, che ha sottovalutato l’implicazione degli Emirati Arabi, dell’Arabia Saudita e dell’Egitto. Ci dice un ex alto funzionario italiano: “C’è un problema di allineamento internazionale da cui usciamo perdenti, questo è chiaro, perché gli stati del Golfo hanno deciso di investire molto su Haftar nell’ultimo anno”. Il governo italiano è stato preso in contropiede dall’attivismo delle monarchie del Golfo, che da tempo lavorano per un riassetto del medio oriente in funzione anti Fratellanza musulmana, e quindi anti Turchia e Qatar, principali sponsor del nostro alleato Fayez al Serraj.
Nonostante la rivendicata special relationship con Donald Trump, i gialloverdi si sono trovati spiazzati dal via libera americano alle ambizioni saudite ed emiratine. “Il governo non ha capito che ci troviamo di fronte a uno schieramento operativo, e ha perso tempo in polemiche inutili con i francesi. Chi rifornisce davvero Haftar di armamenti? Parigi o Abu Dhabi? L’errore principe dell’Italia è pensare che con le monarchie del Golfo sia soltanto una questione di business. Non lo è, non sono mica dei beduini, hanno una strategia politica e adesso colgono l’occasione offertagli da Trump. Se, come pare, i Fratelli musulmani saranno classificati come organizzazione terroristica da parte americana, Washington mette a rischio i nostri interessi nazionali”, ci dice una delle nostre fonti. Un bel risultato di politica estera per un governo nazionalista.
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