Il costo della stabilità. Il caso del Sudafrica
Oggi il paese va al voto. Ma quanto dura un partito rivoluzionario (vero)?
Milano. Oggi il Sudafrica va a votare, l’Anc, il partito di Mandela, vincerà, ma il suo consenso è ai minimi, e nelle elezioni locali del 2016 il disamore si è visto chiaro: le grandi città che hanno sostenuto il sogno dell’Anc, che era un sogno di riscatto e di democrazia, si sono concesse all’opposizione. Il leader dell’Anc, nonché attuale presidente, Cyril Ramaphosa, è popolare e autorevole: era lui l’erede di Mandela, lui che gli camminava al fianco in quel febbraio storico e magico del 1990 quando Mandela uscì di prigione e il Sud Africa cominciò ad aver voglia di futuro.
Ramaphosa, brillante e volitivo e con un’arte di negoziare unica (oggi rarissima), contribuì a costruire quel futuro, ma le logiche interne dell’Anc gli sbarrarono la strada, il successore di Mandela fu Thabo Mbeki e poi arrivò Jacob Zuma, il corrotto Zuma, e soltanto ora, cioè l’anno scorso, è arrivato il momento di Ramaphosa. Il quale oggi si trova a pagare da solo il prezzo della stabilità, il prezzo di un grande partito che voleva traghettare il Sudafrica lontano dall’apartheid e verso la democrazia, la convivenza pacifica e il benessere, e che si è ritrovato sommerso, azzoppato, abbrutito dalla corruzione. Una classe dirigente implosa: questo è l’Anc oggi. E Ramaphosa ripete a ogni comizio – è un leader caldo e rassicurante, ma il confronto con l’energia dei raduni elettorali di un tempo è impietoso – che “ripulirà” l’Anc, che il partito al potere tornerà a occuparsi del Sudafrica e non dei propri affari.
Ha però bisogno di un mandato forte per combattere la corruzione e i suoi nemici interni – che sono tanti: divenne leader con uno scarto risicato – e questa è la grande contraddizione della leadership di Ramaphosa, il prezzo della stabilità: il voto per lui è un voto all’Anc e a un sistema di corruzione che ha allontanato quella classe media nera che l’Anc ha creato, motivato, riscattato. Lui vorrebbe ritornare allo spirito originario dell’Anc e proiettarlo in avanti con il suo istinto ben più liberale rispetto a quello dei suoi “compagni” – molti si chiamano ancora così, tra di loro – ma la sua debolezza nell’apparato è stata evidente a marzo, quando sono state pubblicate le liste elettorali: ci sono molti esponenti dell’èra Zuma, molti inquisiti, molti accusati di crimini gravi. La resa dei conti dentro all’Anc, anche in seguito a un decentramento del potere che ha creato molti signori locali potenti e irremovibili, ha fatto, tra il 2000 e il 2017, almeno 300 morti: omicidi politici.
Strana situazione, quella del Sudafrica, in cui molti fanno il tifo per il presidente di un partito che, per cominciare la ristrutturazione del paese dopo il “decennio perduto” di Zuma in cui è esplosa la disoccupazione e ha smesso di funzionare persino la compagnia elettrica nazionale, deve ribaltare il partito di cui è espressione. I più ottimisti sperano in una distribuzione del costo della stabilità: l’opposizione liberale della Democratic Alliance (Da) si è trasformata in questi ultimi anni, il suo leader giovane e nero, Mmusi Maimane, sta levando l’etichetta di “partito bianco e colorato”, cioè non nero, e a livello locale ha già dato segnali incoraggianti. Una grande coalizione di Ramphosa e della Da è un sogno a occhi aperti che nessuno osa fare, per quanto sappia tanto di futuro e serva per esorcizzare l’altra possibile, terribile alleanza, quella con gli Economic Freedom Fighters: il nome non deve ingannare, è un partito nazionalista nero che vuole l’espropriazione delle terre dei bianchi, la nazionalizzazione delle miniere, delle banche, dei “settori strategici”. Senza alcuna compensazione, rimangiarsi il sogno di Mandela è gratis.