L'intesa tra Orbán e Trump ha due nei. E' sempre così coi sovranisti “me first!”
Il primo ministro ungherese è riuscito a farsi invitare alla Casa Bianca, ma le amicizie con Russia e Cina pesano sulla sua relazione con il presidente americano
Roma. Finalmente ci è riuscito Viktor Orbán. Dopo ventuno anni, di nuovo, è andato a Washington, è stato accolto alla Casa Bianca, ha stretto la mano a un presidente americano, ha parlato di commercio, sicurezza, energia. Era un momento atteso, e pensare che l’ultimo ad accoglierlo fu Bill Clinton nel 1998 – e in quell’occasione Orbán lo ringraziò per aver permesso all’Ungheria di entrare nella Nato – dopo di lui nemmeno il conservatore George W. Bush aveva concesso al primo ministro ungherese una visita ufficiale e Barack Obama aveva sempre rifiutato di incontrare uno dei maggiori esponenti delle estreme destre europee. Donald Trump è diverso, per gli uomini forti, da Bolsonaro a Putin passando per Bin Salman, ha una sua passione e sebbene il peso internazionale di Viktor Orbán sia inferiore rispetto ai nomi precedenti, il presidente americano non ha voluto negare una visita nemmeno a lui. I media ungheresi, molti dei quali sono controllati da una fondazione, la Central European Press and Media Foundation, presieduta da un miliardario amico del primo ministro, hanno raccontato il bilaterale come il trionfo della strategia di Budapest, come l’approvazione delle sue politiche a livello internazionale, una conferma del fatto che l’Ungheria non è isolata e che gode dell’approvazione del presidente degli Stati Uniti.
Zoltán Kovács, portavoce e capo della comunicazione del primo ministro, ha detto che i media americani come il Washington Post e l’Atlantic sono andati fuori testa per la decisione di Trump di incontrare alla Casa Bianca il premier ungherese e che se lui da straniero dovesse arrivare in Ungheria senza sapere nulla della nazione e basandosi su quanto scritto dalla stampa americana, si sentirebbe confuso e penserebbe che Viktor Orbán altri non è che la versione magiara di Pol Pot o di Stalin. Poi Kovács elenca tutti punti che uniscono l’agenda ungherese e quella americana: budget per la Difesa, entro il 2026 Budapest verserà il 2 per cento del pil alla Nato; sicurezza, l’Ungheria ha partecipato a molte delle missioni americane contro lo Stato islamico; e infine l’immigrazione. Parola magica, ossessione, promessa di ogni populista. Al sentire parlare di lotta all’immigrazione Donald Trump va in visibilio. Ma, al di là delle idee sulla protezione dei confini, non è per questo che il presidente americano ha concesso al primo ministro l’onore di entrare nello Studio Ovale. Tanto più che Donald Trump è arrivato alla Casa Bianca nel 2017, e in questi due anni Orbán ha tentato con insistenza di essere ricevuto, e Trump ha invitato prima di lui il polacco Andrzej Duda e il premier ceco Andrej Babis, colleghi di Visegrád che hanno ottenuto photo opportunity e strette di mano prima di lui.
I sovranisti, si sa, hanno un’ideale affinità di intenti. Va bene la lotta all’immigrazione, va bene il filo spinato lungo la frontiera con la Serbia, ma sono molti gli atteggiamenti ungheresi che agli Stati Uniti e a Trump non piacciono. A cominciare dalle amicizie ungheresi con russi e cinesi. A febbraio il governo di Orbán, che non ha mai nascosto le sue simpatie per Vladimir Putin, ha permesso alla Banca internazionale per gli investimenti russa di trasferirsi a Budapest: ai dipendenti dell’istituto sarà concessa l’immunità diplomatica. Tra le due nazioni ci sono anche molti accordi energetici, la Rosatom, società gestita dal Cremlino, sta costruendo due reattori in Ungheria per un valore di 12,5 miliardi di euro. Budapest ha firmato – primo paese europeo – con la Cina il memorandum sulla via della seta, e a novembre dello scorso anno, Orbán al Forum economico “China International Import Expo” ha ringraziato Shanghai e le società cinesi per aver aiutato l’Ungheria a raggiungere la massima occupazione. Che sia europeo o internazionale, il sovranismo ha sempre il solito problema: quel che conviene a te, non conviene a me e la mia convenienza viene sempre per prima. Me first!