Luigi Di Maio e Thomas Miao (foto LaPresse)

E l'Italia con Huawei che cosa farà?

Giulia Pompili

Su certi temi, come la firma dell'intesa sulla Via della Seta, il governo gialloverde ha già dimostrato di essere diviso e di non aver compreso la portata di alcuni cambiamenti. Il ruolo del Mise e quello del Copasir

Roma. La decisione dell’Amministrazione Trump sul controllo delle tecnologie che arrivano dalla Cina costringe il resto del mondo a una riflessione seria, e che guardi al lungo periodo. Già dal gennaio scorso, con l’incriminazione formale del colosso delle telecomunicazioni cinesi, la discussione sull’opportunità o meno di aprire ad aziende come Huawei e Zte l’infrastruttura strategica del 5G si era fatta più serrata anche in Europa. Del resto, non è facile trovare una terza via tra la sicurezza nazionale e i princìpi di libero mercato. Possono però essere messe in campo una serie di misure cautelative che consentano di utilizzare componenti che arrivano dalla Cina (o dall’America) garantendo comunque un certo livello di sicurezza nazionale.

 

 

In Italia la situazione è più complicata che in altre parti d’Europa. La leggerezza politica con cui si è affrontata la questione della firma del memorandum d’intesa sulla Via della Seta – un documento politico scambiato e spacciato come un accordo commerciale – è particolarmente allarmante. Nel testo, nonostante gli avvertimenti che arrivavano da Washington, è stata inserita la parola “telecomunicazioni”: certo, il memorandum non è vincolante, ma ribadisce la stretta collaborazione tra Italia e Cina in un settore particolarmente sensibile. Non solo. L’11 marzo scorso, cioè dieci giorni prima della firma del memorandum a Roma alla presenza del presidente cinese Xi Jinping, il ministero dello Sviluppo economico – cioè il ministero competente per le telecomunicazioni – pubblica un comunicato in cui “precisa che l’intesa tra Italia e Cina non comprende alcun accordo inerente la tecnologia del 5G”.

 

Dopo un mese però smentisce se stesso, firmando un’intesa dove c’è la parola telecomunicazioni, e conoscendo il tipo di business delle aziende cinesi e gli ingenti investimenti all’estero di Huawei e Zte, è difficile immaginare a quali altre tecnologie si riferiscano i cinesi, se non al 5G (e ai satelliti, un altro tema particolarmente delicato). Nello stesso comunicato, il ministero presieduto dal leader del Movimento cinque stelle Luigi Di Maio sottolinea che già a febbraio il ministro ha attivato il “il Centro di valutazione e certificazione nazionale (CVCN) per la verifica delle condizioni di sicurezza e dell’assenza di vulnerabilità di prodotti, apparati, e sistemi destinati ad essere utilizzati per il funzionamento di reti, servizi e infrastrutture strategiche, nonché di ogni altro operatore per cui sussiste un interesse nazionale”. Il Cvcn, che è un utilissimo sistema preventivo di controllo delle nostre reti, era già previsto dal governo Gentiloni: in perfetta continuità con il governo precedente, Di Maio ha soltanto emanato un decreto attuativo. Però, prima che il Cvcn entri in funzione ci vorrà ancora del tempo. Nel frattempo da mesi il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica si sta occupando della questione. Da un lato, il Copasir dovrebbe concludere entro la fine dell’estate un’indagine conoscitiva sulla cybersicurezza, che ha coinvolto finora gli attori istituzionali, e che in questo periodo sta convocando in audizione altri interessati, compresi i rappresentanti di Huawei (e forse anche di Zte). D’altra parte, già da tempo il Copasir ha posto particolare attenzione sulla sicurezza del 5G con un’indagine parallela, chiamando in audizione una volta il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e ben due volte Di Maio. Il fatto è che non solo Huawei e Zte hanno già partecipato alle sperimentazioni del 5G a Milano e Matera-Bari, ma anche la rete del 4G – su cui si basa quella di prossima generazione – è per gran parte costruita con componenti cinesi, come peraltro è successo praticamente in tutta Europa.

  

Come sempre quando si tratta della Cina, però, il vero tema è la postura internazionale da tenere su certi temi, più politici che economici. Di Maio – e il suo sottosegretario al Mise Michele Geraci – è sempre stato molto ottimista sulla questione Cina e 5G (“Abbiamo messo in campo gli strumenti per la sicurezza”). Lo scorso settembre ha partecipato al “Huawei 5G Summit” ed era stato il vicepremier in persona a dare il via alla rete sperimentale 5G a Matera. Non è un caso se a inizio aprile in un’intervista alla Stampa il ceo di Huawei Italia, Thomas Miao, abbia definito il governo Conte “amico”. Secondo Agi, ad aprile durante la missione a Pechino Conte avrebbe incontrato “informalmente” i vertici di Zte, che a breve inaugureranno a Roma “il primo Centro sulla sicurezza cibernetica in Italia”. Anche il 5G è oggetto di scontro all’interno del governo gialloverde: a fine febbraio è stata presentata un’interrogazione del deputato leghista Capitanio della Commissione Trasporti e Tlc della Camera, e tutte le opposizioni chiedono di esercitare il golden power. Il 5G, come la Via della Seta, potrebbe finire nel caos della campagna elettorale. A guadagnarci, anche in questo caso, potrebbero essere soltanto i cinesi.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.